        La 200 miglia &egrave; giunta alla sua 83eisma edizione e vedr&agrave; nuovamente al via 36 piloti provenienti da tutto il mondo che si sfideranno per 57 giri dello storico Daytona International Speedway. Hickman e Cooper piloti ufficiali Triumph alla 200 Miglia di Daytona  Herrin nuovamente favorito a Daytona Manca sempre meno all&rsquo;83esima edizione della 200 miglia di Daytona in programma il prossimo 8 marzo sul circuito in Florida. Alla gara d&rsquo;apertura della stagione del MotoAmerica che da qualche anno si corre con le nuove Supersport NG (in passato Daytona prevedeva un regolamento ad hoc che permetteva preparazioni pressoch&eacute; libere), dopo aver conquistato la sua terza 200 miglia lo scorso anno ed aver terminato il 2024 conquistando anche il titolo MotoAmerica SBK, Josh Herrin torner&agrave; con la Panigale V2 a caccia del suo quarto successo a Daytona. L&rsquo;americano nei recenti test al Podium Clun in Arizona &egrave; tornato sulla moto con cui ha conquistato oltre alle ultime due edizioni della 200 miglia di Daytona anche il titolo MotoAmerica SSP 2023. Presenti anche tutti i piloti che lo scorso anno salirono sul podio con Herrin ovvero il diciannovenne Tyler Scott, secondo lo scorso anno ed una delle stelle emergenti del motociclismo americano con un passato anche nell&rsquo;European Talent Cup, ed Hayden Gillim, cos&igrave; come Richie Escalante, quarto lo scorso anno e compagno di squadra di Scott sulla Suzuki GSX-R 750. Pesante l&rsquo;assenza del team Attack Performance Yamaha che lo scorso anno ha schierato Xavi Fores costretto per&ograve; al ritiro dopo un solo giro per un problema tecnico. Slitta dunque il debutto della Yamaha R9 oltre oceano visto che debutter&agrave; solo nel primo round stagionale al Barber Motorsport Park in aprile. Assente anche il team YART che lo scorso anno prese parte alla gara con Niccol&ograve; Canepa, infortunatosi nelle sessioni di prova, Karel Hanika e Marvin Fritz che con le Yamaha R6 della squadra austriaca terminarono rispettivamente al quinto e sesto posto la 200 miglia di Daytona. Dall&rsquo;Europa arriveranno per&ograve; comunque due team, il gi&agrave; annunciato team PHR Performance che schierer&agrave; oltre al suo proprietario Peter Hickman anche Richard Cooper, vincitore lo scorso anno della classe Sportbike nel campionato inglese con la squadra del road racer pi&ugrave; veloce dell&rsquo;Isola di Man. E proprio a proposito dell&rsquo;isola pi&ugrave; famosa tra i motociclisti, arriver&agrave; come anticipato nel corso dell&rsquo;inverno il debutto in gara di Michael Dunlop in sella alla Ducati Panigale V2. Tra i piloti con trascorsi iridati da segnalare anche la presenza di Danny Webb, vero tuttofare del motociclismo che dopo aver corso nel motomondiale &egrave; passato prima alle corse su strada partecipando a quattro edizioni del Tourist Trophy e a diverse altre Road Races, una stagione in Supersport iridata e qualche apparizione in campionati nazionali tra cui il CIV, e &egrave; da qualche anno impegnato nell&rsquo;EWC dove quest&rsquo;anno difender&agrave; i colori del rientrante team LRP Poland.  Road Races, Michael Dunlop vede rosso: a Jerez con la Panigale V2       

Saranno trentasei i piloti che si sfideranno in sella alle Supersport sulla storica pista in Florida, favorito ovviamente il campione in carica in sella alla Panigale V2

Daytona 200, entry list: tutti a caccia di Josh Herrin e della sua Ducati

        Anticipando di un giorno i piloti del mondiale SBK e SSP, Michael Dunlop &egrave; sceso in pista quest&rsquo;oggi a Jerez con la Ducati Panigale V2 preparata dal team Feel Racing, la stessa che lo scorso anno si &egrave; laureata campione del mondo con Adrian Huertas. Prove generali per la SBK 2025 a Jerez, Razgatlioglu assente giustificato Test a Jerez e Daytona per preparare il TT Se si &egrave; amanti delle corse su strada, Michael Dunlop non ha certo bisogno di troppe presentazioni, lo scorso giugno ha superato lo zio Joey per numero di successi al Tourist Trophy diventando il pilota pi&ugrave; vincente della storia dell&rsquo;Isola di Man. Il trentacinquenne di Ballymoney negli ultimi anni ha fatto della Supersport e della Supertwin il proprio terreno da caccia diventando di fatto quasi imbattibile in sella alla Yamaha R6 e alla Paton S1-R. Nel 2023 &egrave; diventato il primo pilota della storia a siglare un giro sul Mountain Course a 130mph (209km/h) con una Supersport, un record incredibile visto che ad oggi sono solo 26 i piloti ad aver concluso un giro sul Mountain Course a 130 miglia orarie di media e tutti questi lo hanno fatto con un 1000 ad eccezione appunto di Dunlop e Hickman che nella stessa gara chiuse un giro poco sopra le 130mph con la Triumph Street Triple 765 RS. Nello scorso inverno Dunlop dopo aver portato al limite la Yamaha R6 ha provato a lungo la Triumph 765, facendo anche qualche sessione di qualifica al TT 2024 con la moto inglese salvo poi dal terzo giorno tornare alla sua amata Yamaha R6 per le gare che ha poi vinto. Quest&rsquo;anno il 2025 del nord irlandese inizia proprio a Jerez dove ad attenderlo c&rsquo;era la Ducati Panigale V2, la stessa con cui Adrian Huertas ha conquistato il titolo mondiale SSP nella passata stagione. Nei piani del recordman di vittoria al TT c&rsquo;&egrave; la Daytona 200 che si correr&agrave; l&rsquo;8 marzo sullo storico ovale americano prima di tornare in Irlanda del Nord dove dal 7 al 10 maggio si correr&agrave; la North West 200 ultima prova generale prima del Tourist Trophy 2025 che si correr&agrave; solo due settimane pi&ugrave; tardi tra fine maggio ed inizio giugno.  MotoGP, Dall&rsquo;Igna: &ldquo;Stravincere fa diventare antipatici e non vogliamo esserlo&rdquo; Continua a leggere l'articolo nella prossima pagina &nbsp; Ducati ci eravamo tanto amati &ldquo;Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano&rdquo; cantava Antonello Venditti in &ldquo;Amici mai&rdquo;, quello tra Michael Dunlop e Ducati &egrave; effettivamente un ritorno di fiamma visto che gi&agrave; nel 2020 avrebbe dovuto correre al TT 2020 con una moto di Borgo Panigale, in quel caso per&ograve; era la Ducati Panigale V4 R in configurazione Superbike del team Vision Track PBM. Il nord irlandese dopo un primo test a Jerez purtroppo per&ograve; vide il progetto arenarsi con lo scoppio della pandemia di Covid-19 che costrinse gli organizzatori a cancellare l&rsquo;edizione 2020 del Tourist Trophy. Lo scorso anno poi il ritorno di fiamma, al ManxGP Michael Dunlop abbandon&ograve; la Suzuki GSX-R 750 SRAD con la quale aveva corso le ultimi edizioni del Classic Superbike in favore di una Ducati 916 con la quale per&ograve; non riusc&igrave; a terminare nemmeno un giro e dopo il primo giorno di prove accanton&ograve; per concentrarsi sulle altre classi. Insomma quella tra Dunlop e Ducati sembra essere fin qui una storia d&rsquo;amore travagliata ma chiss&agrave; se la Panigalre V2 potr&agrave; cancellare tutto il passato e regalare a Dunlop il successo numero 30 a Tourist Trophy.        

Il 29 volte vincitore del TT &egrave; sceso oggi in pista con la Supersport bolognese, nei piani del nord irlandese la Daytona 200 e il Tourist Trophy

Road Races, Michael Dunlop vede rosso: a Jerez con la Panigale V2

        Va a Maurizio Bottalico l&rsquo;ultima assoluta del 2024, una domenica di gara condizionata inevitabilmente dalla notizia della scomparsa di Luca Salvadori con il sette volte Campione Italiano in Salita che ha poi dedicato il successo all&rsquo;amico-rivale. Il Moto Club Spoleto si &egrave; recato a Frohburg per rendere omaggio a Luca Salvadori Bottalico torna e ritrova la vittoria Dopo esser tornato come pilota nel paddock del CIVS a Spoleto in concomitanza con la tappa dell&rsquo;European Hill Climb Championship, Maurizio Bottalico &egrave; tornato ad indossare il casco anche alla Saline-Volterra, tappa conclusiva del Campionato Italiano Velocit&agrave; in Salita. Dopo aver terminato in seconda posizione Gara 1 alle spalle di Francesco Cianfarani per soli 3 centesimi, Bottalico con la Honda CBR600RR del M&amp;E Motorsport a si &egrave; preso la rivincita in Gara 2 firmando l&rsquo;assoluta in 1&rsquo;26&rdquo;16. Un successo per il pluricampione italiano ed europeo sentito e che nella giornata di luned&igrave; con un lungo messaggio sui social ha dedicato a Luca Salvadori, amico e rivale. Sul terzo gradino del podio della SuperOpen 600 Loris Guerrini con Manuel Dal Molin, campione della classe assente a Volterra ed impegnato con successo a Rijeka nella RS Moto Cup.             Visualizza questo post su Instagram  Un post condiviso da MAURIZIO BOTTALICO (@bottalico_40)      Campioni assenti, cambiano gli equilibri Con tutti i titoli assegnati gi&agrave; nel precedente round di Spoleto, l&rsquo;unico campione a presentarsi all&rsquo;ultima gara &egrave; stato Daniele Friz con il suo Zip 100cc, nonostante il terzo posto in Gara 1, nella seconda manche non va meglio del quarto tempo dovendosi accontentare della medaglia di legno nel round conclusivo. A vincere nella classe Entry &egrave; stato dunque Gabriele Rea che ha avuto la meglio in virt&ugrave; del miglior tempo in Gara 2 di Nico Morelli e Gabriele Peticca, tutti come Friz in sella agli scooter Piaggio. Nella Under &egrave; Cristian Lolli a trionfare con la sua Moto3 BeOn davanti a Jarno Anichini sulla Honda RS 250 e Marco Lombardi sulla Honda NSF250R. Il campione in carica della classe Under Daniele Stolli anche se non ha corso con la sua Yamaha R3 era comunque presente a Volterra in sella alla Triumph Daytona 765 con cui &egrave; arrivato terzo nella SuperOpen 1000 (le Supersport NG nel CIVS corrono in classe con le Superbike) alle spalle di David Lignite su Yamaha R1 e Nicola Barone su Suzuki GSX-R 750. Senza i campioni Stefano Manici e Carmine Matarazzo anche le classi Naked e Supermoto sono andate a due &ldquo;outsider&rdquo; ovvero Marco Giovannoni su Ducati Streetfichter V4 S e Mattia Colanci con la sua Yamaha 450. Nella Naked &amp; ADV sul podio con Giovannoni sono saliti Lucio Cazzin e Luca Pioli mentre nella classe Supermoto a completare il podio Daniele Tuzi e Massimiliano Carlomusto. Nella classe Quad vittoria e titolo italiano per Matteo Lardori mentre tra i Sidecar successo per l&rsquo;equipaggio Manfredi-Del Sarto. Con la Saline-Volterra va in archivio anche l&rsquo;edizione 2024 del Campionato Italiano Velocit&agrave; in Salita, questa volta per&ograve; non &egrave; stata una festa, perch&eacute; il pensiero di tutti era rivolto ovviamente alla memoria di Luca Salvadori che in un solo anno di CIVS &egrave; riuscito a farsi amare da tutti i piloti.        

Dopo la conquista del titolo europeo in Salita ed il podio al ManxGP, il sammarinese d&rsquo;adozione &egrave; tornato nel CIVS conquistando il successo della gara conclusiva della stagione

CIVS, Volterra: Bottalico si prende l’ultima salita dell’anno nel ricordo di Salvadori

        Era nell&rsquo;aria da qualche tempo, ora con il comunicato di Dorna, FIM e MSMA se ne ha certezza: la stagione 2025 sar&agrave; l&rsquo;ultima della Supersport 300. Le piccole &ldquo;trecento&rdquo; resteranno probabilmente come passaggio intermedio nei campionati nazionali ma nel mondiale saranno sostituite dalla nuova Sportbike, una classe che raccoglie diverse tipologie di sportive (ma non solo) entry level. POSSIBILE FUSIONE Benvenuta Sportbike Rinviata di una stagione, la Sportbike non debutter&agrave; dunque nel 2025 anno in cui continuer&agrave; la collaborazione tra federazioni nazionali, case motociclistiche e FIM per trovare un corretto bilanciamento delle prestazioni. In pista infatti ci saranno sei moto assai diverse tra di loro, dalle bicilindriche frontemarcia ai quattro cilindri passando per le tre cilindri, anche le cilindrate variano passando da 400cc a quasi 800cc. Insomma il compito di equilibrare le prestazioni non &egrave; facile, in questo inizio di stagione nel BSB Sportbike ci sono gi&agrave; stati i primi malumori e gara dopo gara viene costantemente aggiornato il regolamento per favorire o sfavorire una determinata casa in cerca del corretto bilanciamento. Al momento oltre al BSB si corre anche nel MotoAmerica mentre in Italia oltre ai vari trofei monomarca organizzati da Aprilia, Kawasaki e Yamaha si corre uno contro l&rsquo;altro nel National Trophy e nel MotoEstate. Abbiamo parlato di Aprilia, Kawasaki e Yamaha che con i loro trofei gi&agrave; animano il paddock del Campionato Italiano Velocit&agrave; ma ci sono anche altre tre case che potranno prendere parte alla nuova Sportbike, andiamo a scoprirle una per una. Continua nella pagina successiva &nbsp; Aprilia RS 660 La sportiva entry level di Noale &egrave; probabilmente la pi&ugrave; &ldquo;ready to race&rdquo;, lo dimostrano gli ottimi tempi che i piloti del trofeo monomarca riescono a siglare. La modo monta un motore bicilindrico frontemarcia da 659cc in grado di erogare 100cv a 10.500 giri/min nella sua versione stradale. La lancetta della bilancia si ferma a 169kg a secco mentre sale a 183kg in ordine di marcia. Ad avvolgere il motore un telaio doppia trave in alluminio, cos&igrave; come il forcellone mentre per le sospensioni la casa di Noale ha optato per delle Kayaba upside-down da 41mm completamente regolabili all&rsquo;anteriore e un mono Sachs con piggy-back completamente regolabile in: precarico molla, idraulica in compressione ed estensione. Un pacchetto che la rende &ldquo;da concessionario&rdquo; la moto pi&ugrave; pronta ad affrontare i cordoli di una pista e che nella sua versione da Trofeo ha fin qui fatto registrare riferimenti cronometrici tra i migliori della classe.  Continua nella pagina successiva &nbsp; Honda CB 750 Hornet La classe Sportbike come abbiamo gi&agrave; detto sar&agrave; un mix di soluzioni tecniche differenti, sar&agrave; infatti ammessa anche la naked&nbsp;di Tokyo che ovviamente, come avviene anche in Supersport NG con la Triumph Street Triple RS 765, sar&agrave; munita di un apposito kit che la trasformer&agrave; in una sportiva. La CB750 Hornet monta un motore bicilindirco parallelo da 755cc in grado di erogare 92cv a 9.500 giri/min. Una potenza non troppo lontana da quella della Aprilia RS 660, rispetto alla sportiva di Noale per&ograve; la naked di Toyio pesa 7kg in pi&ugrave; fermando la bilancia a 190kg in ordine di marcia. Ad &ldquo;appesantire&rdquo; il calabrone il telaio a diamante in acciaio mentre il reparto ciclistico &egrave; completato da una forcella Showa SFF-BP da 41mm, anche il mono &egrave; prodotto della casa giapponese e si fissa al forcellone con un leveraggio Pro-Link.  Continua nella pagina successiva &nbsp; Kawasaki Ninja ZX-4RR L&rsquo;unica quattro cilindri ammessa alla classe Sportbike &egrave; la piccola verdona. Molto in voga tra la fine degli anni &rsquo;80 e la prima met&agrave; degli anni &rsquo;90, le 4 cilindri 400cc dominavano il mercato delle sportive entry level. Regimi di rotazione prossimi ai 18mila giri e ciclistiche affilate le rendevano imprendibili, in mano ai pi&ugrave; esperti, sui passi di montagna cos&igrave; come nelle piste pi&ugrave; guidate. La nuova Ninja ZX-4RR riporta in pista quella stessa filosofia con il suo piccolo 4 cilindri da 399cc ed una potenza di 77cv a 14.500 giri/min, regimi di rotazione degli di una vera Supersport. La Ninja ZX-4RR nonostante i due cilindri in pi&ugrave; e le stringenti normative antinquinamento Euro5+ ferma la bilancia a 188kg, giocandosela con l&rsquo;Aprilia come peso leggero della categoria. Impegnata oggi nel trofeo monomarca all&rsquo;interno del Campionato Italiano Velocit&agrave;, cos&igrave; come nel BSB, la piccola Ninja in configurazione gara sar&agrave; una rivale tosta per le pi&ugrave; grandi bicilindriche.  Continua nella pagina successiva &nbsp; Suzuki GSX-8R Se la casa di Hamamatsu ha da poco annunciato la fine della produzione della GSX-R 1000RR, il campionato mondiale Sportbike riporter&agrave; in pista la casa giapponese grazie alla bicilindrica sportiva. Costruita partendo dalla stessa piattaforma della sorella naked GSX-8S, la bicilindrica di Hamamatsu &egrave; probabilmente la meno &ldquo;racing&rdquo; come family feeling e con i suoi 205kg di peso in ordine di marcia &egrave; anche la pi&ugrave; pesante del lotto. Il motore bicilindrico parallelo da 776cc eroga 83cv a 8.500 giri/min, poche settimane fa a Misano, la Suzuki ha presentato il modello Cup che oltre a competere nella Sportbike a partire dal 2026, il prossimo anno sar&agrave; protagonista di un trofeo monomarca. In America invece la GSX-8R corre gi&agrave; nella Twins Cup dove grazie a Rocco Landers si trova in testa alla classifica grazie a quattro successi e altri tre podi. &nbsp;  Continua nella pagina successiva &nbsp; Triumph Daytona 660 L&rsquo;ultima nata delle sportive entry level &egrave; la moto inglese, erede della storica Daytona 765. La nuova 660 scende di classe passando dalla Supersport alla Sportbike ma mantiene il caratteristico tre cilindri della casa inglese da 660cc in grado di erogare 95cv a 11.250 giri/min. La conformazione del motore fa salire il peso della piccola sportiva di Hinckley a 201kg in ordine di marcia. La moto inglese che &egrave; stata presentata nella primavera del 2024 corre gi&agrave; nel BSB dove con Richard Cooper si trova a lottare con Edoardo Colombi in sella all&rsquo;Aprilia RS 660 Trofeo. L&rsquo;italiano si &egrave; aggiudicato le prime quattro gare dell&rsquo;anno ma l&rsquo;inglese ha replicato con una doppietta a Knockhill ricucendo il gap dal leader a solo mezzo punto. Sul terreno amico, la Triumph sembra dunque gi&agrave; in grado di competere ad armi pari con la pi&ugrave; chilometrata Aprilia.  Continua nella pagina successiva &nbsp; Yamaha R7 La moto di Iwata &egrave; stata insieme ad Aprilia tra le prime sportive entry level sul mercato, la R7 che eredita un nome importante per la storia di Yamaha ha poco a che fare con la 4 cilindri 750 utilizzata nella Superbike alla fine degli anni &rsquo;90. Con il suo motore bicilindrico frontemarcia da 689cc, lo steso utilizzato anche da MT-07 e Tenere 700, la sportiva di Iwata ha una potenza di 73,4cv a 8.750 giri/min. Il bicilindrico CP2 &egrave; racchiuso in un telaio a diamante mentre le sospensioni sono affidate a Kayaba che firma sia le sospensioni da 41mm che il monoammortizzatore. Il peso in ordine di marcia per la R7 &egrave; di 188kg. In Italia gi&agrave; da due stagioni si corre il trofeo monomarca R7 Cup mentre nelle &ldquo;road race&rdquo; delle versioni estreme delle R7, con preparazioni che sfiorano i 20mila euro, corrono e vincono contro le Paton alla North West 200 e al Tourist Trophy.        

FIM e Dorna hanno comunicato che la prossima stagione sar&agrave; l&rsquo;ultima per le piccole trecento: la nuova entry class sar&agrave; riservata alle &ldquo;Twin&rdquo; ma non solo

Addio Supersport 300, dal 2026 arriva la Sportbike: tutte le moto che correranno

        Sullo storico Daytona International Speedway &egrave; andata in scena la prestigiosa 200 miglia vinta per il secondo anno consecutivo da Josh Herrin sulla Panigale V2 del team Warhorse HSBK Racing Ducati. Una gara che ha riservato molti colpi di scena a partire dal ritiro di Xavi Fores, campione in carica del MotoAmerica Supersport dopo appena un giro. 200 MIGLIA DI DAYTONA, 67 PILOTI AL VIA: ANCHE NICCOL&Ograve; CANEPA A CACCIA DI HERRIN Terzo successo in carriera a Daytona Per Josh Herrin quello della 82esima edizione della 200 miglia di Daytona &egrave; stato il terzo successo nella &ldquo;Great American Motorcycle Race&rdquo;. Per l&rsquo;americano il primo era arrivato addirittura nel lontano 2010, mentre nelle ultime due edizioni con la Ducati Panigale V2 &egrave; riuscito a imporsi back-to-back. La gara che lo scorso anno si era risolta solo sotto alla bandiera a scacchi con un&rsquo;incredibile volata, ha regalato meno spettacolo dopo la sosta perch&eacute; il box Ducati ha permesso a Herrin di rientrare molto pi&ugrave; velocemente rispetto a Richie Escalante col quale aveva a lungo duellato. Il messicano in sella alla Suzuki GSX-R 750 del Vision Wheel M4 ECSTAR Suzuki ha provato a recuperare il tempo perso nel pitstop facendo anche segnare il giro record della gara in 1&rsquo;48&rdquo;625 e riducendo il gap dal pilota Ducati fino a 5 secondi. Purtroppo per Escalante per&ograve; lo sforzo chiesto alla sua Suzuki lo ha fatto rimanere senza benzina nel corso dell&rsquo;ultimo passaggio. Il messicano ha cos&igrave; perso il secondo posto andato al suo compagno di squadra, il diciottenne Tyler Scott al suo primo podio alla 200 miglia di Daytona. Scott &egrave; considerato uno dei migliori prospetti del motociclismo americano e lo ha dimostrato conducendo una gara senza sbavature che lo ha portato cos&igrave; sul podio. Il terzo gradino del podio &egrave; poi andato ad Hayden Gillim con la Suzuki GSX-R 750 del Vesrah Racing. Escalante &egrave; stato passato anche da Bobby Fong negli ultimi metri ed ha terminato la 200 miglia di Daytona al quinto posto, un risultato deludente viste le premesse e lo svolgimento della gara ma le gare di endurance presentano anche queste incognite. APRILIA VINCENTE A DAYTONA: GUS RODIO PORTA LA RS 660 AL TOP IN GARA 1 Europei sfortunati C&rsquo;era grande attesa per le tante presenze dal vecchio continente per prendere parte alla 200 miglia di Daytona. Purtroppo il nostro portacolori nell&rsquo;EWC Niccol&ograve; Canepa a seguito di una caduta nella gara della SuperHooligans ha riportato una frattura e non ha preso il via della 200 miglia. I suoi compagni di squadra in YART hanno per&ograve; difeso bene il motociclismo europeo con Karel Hanika che ha chiuso in sesta posizione e con Marvin Fritz settimo, lontani circa 1&rsquo;30&rdquo; dal vincitore. Ancora pi&ugrave; sfortunato Xavi Fores, il campione in carica del MotoAmerica Supersport lasciata la Ducati e passato sulla R6 dell&rsquo;Attack Performance Progressive Yamaha Racing &egrave; stato costretto al ritiro dopo appena un giro per la rottura del motore. Un vero peccato perch&eacute; lo spagnolo aveva dimostrato di poter essere della partita anche con la moto di Iwata. Out anche le due Triumph Street Triple RS 765 del team di Peter Hickman con lo stesso recordman del TT costretto al ritiro a una manciata di passaggi dal termine.        

L&rsquo;americano del team Warhorse HSBK Racing Ducati si prende la vittoria nella classica americana, ritirato dopo un solo giro Xavi Fores

Josh Herrin e Ducati concedono il bis: loro la 200 miglia di Daytona

La colorazione ricorda la 500 di Schwantz...

Con Rhys Irwin in sella, è tornata in griglia nel mondiale Supersport una Suzuki a due anni di distanza dall'ultima volta. Il pilota del team Astro JJR è impegnato con l'iconico numero 34 ed una livrea che ricorda fortemente quella "Pepsi" di Kevin Schwantz: ecco la GSX-R, in azione e in pit lane

SSP: a Donington una Suzuki GSX-R 750 rende omaggio a Kevin Schwantz

        Pur non essendo arrivata la vittoria in Superbike con Danilo Petrucci, secondo in Gara 2 alle spalle di Gagne, in Ducati c'&egrave; un buon motivo per festeggiare al termine del weekend del MotoAmerica vissuto sullo spettacolare tracciato di Laguna Seca. In sella alla Ducati Panigale V2 del team Warhorse HSBK (con una livrea speciale proprio come la V4 R di &ldquo;Petrux&rdquo;), Josh Herrin ha infatti conquistato una grande doppietta inin Supersport in un fine settimana partito con un grande spavento.  Dalla paura in qualifica, al gradino pi&ugrave; alto del podio  Il round &egrave; partito in salita per Herrin, che durante le qualifiche ha vissuto un momento da fiato sospeso quando, all'uscita dall'ultima curva, ha colpito un pilota pi&ugrave; lento cadendo rovinosamente in pieno rettilineo. Fortunatamente nessuno dei due ha accusato grossi problemi fisici, ma Josh ha dovuto rimediare un altro casco all'ultimo momento facendoselo prestare da Kenny Roberts, presente nel paddock. Superato lo spavento delle prove, nelle due gare il portacolori Ducati non ha lasciato scampo agli avversari, vincendo sia la manche del sabato, sia quella della domenica davanti alla Suzuki GSX-R 750 del giovanissimo Tyler Scott e alla Yamaha R6 di Rocco Landers. Un risultato che gli permette di lasciare Laguna Seca con ben 81 punti di margine sullo stesso Scott, in una stagione fin qui dominata con ben sette vittorie in dieci gare, che potrebbe portarlo al primo titolo in carriera nella categoria. MotoGP, Pedrosa: "Lorenzo mi ha motivato. Da Stoner ho imparato molto"       

In sella alla Panigale V2 del team Warhorse HSBK, il pilota di Glendale ha dominato il weekend californiano ipotecando il titolo nazionale della classe intermedia

MotoAmerica, festa Ducati in SSP: doppio Herrin a Laguna Seca

        Secondo il cerchio di Itten, considerata la linea guida nell&rsquo;abbinamento dei colori, il verde e l&rsquo;azzurro non andrebbero mai accoppiati. Per l&rsquo;azzurro &egrave; consigliato l&rsquo;impiego con il rosa, il beige, il marrone, oltre agli estremi, il nero e il bianco. Il verde chiaro invece si adatta bene con il grigio, il jeans e naturalmente con bianco o nero. Questo sembrerebbe spiegare l&rsquo;insistenza della Kawasaki per l&rsquo;uso del nero in abbinamento al verde sia nel mondiale Superbike che nella fallimentare esperienza in MotoGP. Quella (s)volta che: tagliare il traguardo, a ogni costo Le colorazioni speciali per Rea e Lowes in Argentina  Una tendenza interrotta con le livree adottate in Gara 1 in Argentina, a San Juan Villicum, dal Kawasaki Racing Team WorldSBK per il 125&deg; anniversario della nascita dell&rsquo;azienda. Alex Lowes ha usato una colorazione ispirata alla GPZ 900R guidata da Tom Cruise in Top Gun ma l&rsquo;effetto ha lasciato a desiderare, a causa delle differenti silhouette delle due moto. Grande entusiasmo ha invece scatenato Jonathan Rea con la carena ispirata, secondo il comunicato, alla ZXR 750 H2 che gareggi&ograve; negli anni Novanta a Daytona con Scott Russell. A rendere celebre la combinazione di bianco, verde e azzurro da questa parte dell&rsquo;oceano fu per&ograve; l&rsquo;impiego sulla produzione di serie, con le storiche ZXR 400 e ZXR 750. E qui apro una parentesi personale: l&rsquo;amore per le forme e i colori della 400 mi indusse a tingere di verde (grazie a Mario e al suo compressore) la mia C12 che, per gli amici, divenne una &ldquo;Kawagiva&rdquo;. Negli anni Duemila avrei comprato prima l&rsquo;una, poi l&rsquo;altra, ma nel frattempo i nuovi modelli si allontanavano sempre pi&ugrave; da questa triade di colori. Le richieste di spiegazioni alle presentazioni stampa non sortivano effetto e temevo di essere diventato incapace di comprendere le mode del momento, i gusti giovanili. Ignoravo che qualcuno al marketing, in Giappone, tramasse per la restaurazione. Ne &egrave; risultata una campagna che sui social ha fatto il botto: soltanto su Twitter oltre 5.000 &ldquo;Mi Piace&rdquo; sul profilo del team e 1300 condivisioni, dalle 10 alle 40 volte i valori abituali. Su Facebook invece il post della squadra ha generato 7700 emoticons, 400 commenti e 1500 condivisioni, valori esponenziali rispetto ai post quotidiani. Merito anche di uno slogan semplice: nella parte superiore si vede la ZXR 750 del 1990 sovrastata dalla scritta Love at first sight (Amore a prima vista) e in quella inferiore la moto di Rea preceduta da Again (Ancora).  Altri esempi di livree celebrative a secco di vittorie  &Egrave; mancata soltanto la vittoria del Cannibale, a riprova di una statistica sulle livree celebrative. Quest&rsquo;anno, a settembre, la Yamaha ha celebrato il 60&deg; anniversario del suo primo GP adottando i colori bianco, giallo e rosso, sia per il round di Barcellona della SBK che per il Bol d&rsquo;Or. Una scelta che non ha portato bene perch&eacute; nella Gara 1 catalana, mentre era in fuga, Toprak Razgatlioglu si &egrave; dovuto ritirare, mentre nelle due manche domenicali &egrave; stato secondo. Atroce anche la beffa nell&rsquo;Endurance perch&eacute; il trio Niccol&ograve; Canepa-Marvin Fritz-Karel Hanika &egrave; stato fermato dall&rsquo;esplosione del motore poco prima di met&agrave; gara, quando era leader con una ventina di secondi di margine. Due anni fa fu la volta dell&rsquo;Honda Team Asia che ad Assen schier&ograve; in Moto3 carene ispirate alle RC143 di 60 anni prima: quel giorno la Honda fece l&rsquo;1-2 ma con altri team mentre Kaito Toba cadde e Ai Ogura fin&igrave; 6&deg;. Al Sachsenring, nel 2015, ci prov&ograve; la Suzuki, per il 30&deg; anniversario della GSX-R: Aleix Espargar&oacute; fu soltanto 10&deg; e Maverick Vi&ntilde;ales 11&deg;. Lo stesso Valentino Rossi ebbe relativa fortuna nel 2005, quando per il GP Usa, per il mezzo secolo della Yamaha, vest&igrave; di giallonero in stile Kenny Roberts, assieme alla sua M1: il pesarese fu 3&deg;, dietro al compagno Colin Edwards (con gli stessi colori) ma vinse Nicky Hayden con la Honda. I due yankees sfruttarono la maggiore conoscenza di Laguna Seca, che tornava nel Mondiale dopo 11 anni. L&rsquo;unico strappo alla regola fu nel 2011, per il 50&deg; anniversario di Yamaha Racing, con il biancorossonero esibito in due GP: a Laguna Seca, Jorge Lorenzo fu 2&deg; e Ben Spies 4&deg; ma ad Assen sul gradino pi&ugrave; alto sal&igrave; lo statunitense. Curiosamente alla sua unica vittoria in MotoGP. Perch&eacute; non farci una livrea commemorativa? Quella (s)volta che: dove sono i piloti austriaci?       

La Kawasaki di Rea ha colto applausi ma non vittorie. Come tanti altri esempi...

Quella (s)volta che: livree celebrative, belle ma poco vincenti

Il 1998 aveva rappresentato la stagione magica di Pierfranceso &ldquo;Frankie&rdquo; Chili che finalmente sulla Ducatona ufficiale gestita da Virginio Ferrari appariva imbattibile nonostante la nutrita schiera di agguerriti avversari davvero tosti. Da Foggy e Corser con le 996 a Slight ed Edwards con le Honda senza dimenticare Haga e Russell con la Yamaha o Yanagawa con la Kawasaki. La consueta pattuglia infernale in perfetto stile Superbike pronta a darsi battaglia a colpi di carena a ogni staccata per una stagione davvero fantastica. Con Virginio che aveva creato nei paddock un&rsquo;avveniristica stazione spaziale che depositava davanti ai box con dentro tutti i ricambi perfettamente stipati e ordinatamente riposti a scomparsa, la squadra ufficiale Ducati vantava due piloti velocissimi e sempre vincenti. Inserito in questa struttura, Chili svettava su tutti e con la Rossa di Borgo Panigale strapazzava gli agguerritissimi avversari. L&rsquo;unico vero avversario di Frankie era... Chili stesso, e la sua emotivit&agrave;.  Quella passione viscerale che lo portava a vivere ogni gara con un pathos totale, che purtroppo lo port&ograve; alla scivolata di Assen, penultimo atto del Mondiale. La famosa scivolata nel duello contro Fogarty all&rsquo;ultima &ldquo;esse&rdquo; dell&rsquo;ultimo giro precluse la scalata al Mondiale di Chili, ma anche la sua permanenza in Ducati. Gi&agrave;, perch&eacute; dopo la rissa con l&rsquo;inglese in Ducati non potevano certo licenziare il campione del Mondo. Quindi il bolognese, dopo una lunga militanza in Ducati, fu obbligato a cercare una nuova cavalcatura.    SBK, Max Biaggi: &quot;Nel 2007 in Suzuki inizi&ograve; la mia nuova vita&quot;  L&#39;intuizione di Batta   Qui entra in scena un altro grande personaggio della SBK storica. Francis Batta, team manager belga passato dalla classe 500 alle neonate SBK e in quel momento capo delle Suzuki ufficiali. Sfavorite per&ograve; dal regolamento tecnico, che relegava le quattro cilindri nipponiche a soltanto 750 cm&sup3;, che risultavano penalizzati rispetto ai mille delle Ducati. Per questo, in anni di partecipazione la Suzuki aveva davvero raccolto poco con vittorie sporadiche di wild card a Sugo e poco altro. Puntare su un talento cristallino come Frankie Chili fu una mossa vincente di Batta e della Suzuki. Spinto dal senso di rivalsa e da una classe invidiabile, Chili nel 1999 riusc&igrave; in brevissimo tempo a trasformare il brutto anatroccolo in un cigno in grado di puntare per la prima volta alle parti alte delle classifiche della difficilissima SBK. Sei podi con finalmente due vittorie in Austria e Germania &ndash; seguite dal successo della wild card Akira Ryo a Sugo &ndash; per la Suzuki con la sua GSX-R 750 con i bellissimi colori della birra Corona. Una stagione per uscire dall&rsquo;anonimato diventando costante protagonista del mondiale SBK. Nel 2000 la Honda decise di schierare a sua volta un bel bicilindrico mille per correre ad armi pari contro la 998. Carl Fogarty si infortun&ograve; in Australia e Colin Edwards balz&ograve; al comando con la sua VTR mille contro un fantastico Noriyuki Haga con una Yamaha R7 nettamente inferiore alle avversarie. Ma quello era un periodo magico dove la classe e la grinta dei piloti riuscivano a colmare problemi e lacune tecniche, e Chili con la Suzuki e Haga con la Yamaha infiammavano il pubblico di tutto il Mondo.    Dieci podi e una vittoria pazzesca a Monza furono il bilancio finale di un&rsquo;altra stagione memorabile per Chili e la Suzuki. Purtroppo questa differenza di cubatura, e quindi di cavalli, creava non pochi problemi alle quattro cilindri e nella snervante attesa di equiparare tutte le SBK a mille cm&sup3; i rapporti tra il velocissimo Chili e la Suzuki iniziarono a raffreddarsi spingendo il bolognese di nuovo verso la Ducati. Un ritorno che si concretizz&ograve; a fine 2001, dopo una stagione in cui il bolognese and&ograve; sul podio soltanto a Donington, ma in grande stile: secondo in Gara 1 e vincitore in Gara 2. Nel triennio di Chili in Suzuki, la Casa nipponica vinse pi&ugrave; che in tutta la sua storia in SBK fino ad allora, uscendo dall&rsquo;anonimato tanto da convincere i suoi vertici a proseguire l&rsquo;avventura tra le derivate dalla serie. Dove all&rsquo;arrivo delle mille con la GSX-R, &egrave; diventata una delle regine della categoria.  Frankie-Francis, che coppia   Il merito &egrave; davvero dell&rsquo;accoppiata Chili-Batta, due uomini che portarono la Suzuki a livelli di visibilit&agrave; e competitivit&agrave; mai visti con una moto decisamente inferiore alle avversarie e soprattutto contro avversari terribili e agguerriti. Peraltro furono memorabili anche i confronti tra i due, iniziati da una serie di minacce da parte di Batta di andare in Argentina per ingaggiare un pilota del Motomondiale nonostante avesse gi&agrave; stipulato un preaccordo con Frankie. Batta sventolava spesso un biglietto aereo dicendo che era per l&rsquo;Argentina, ultima prova del Motomondiale. Alla fine, per&ograve;, i due firmarono il contratto e Batta confess&ograve; che in realt&agrave; si portava sempre dietro un vecchio biglietto per il Belgio, e che non aveva mai avuto intenzione di ingaggiare nessun altro, bens&igrave; soltanto mercanteggiare un po&rsquo; il compenso, alla fine stabilito molto in base ai risultati con grossi premi in caso di vittoria. Infatti si arriv&ograve; all&rsquo;A1 Ring e Chili sulla pista umida vol&ograve; al comando ma cadde, e quando rientr&ograve; ai box Batta gli chiese con un sorriso: &ldquo;Bagnino quanti soldi hai perso oggi?&rdquo;. Ma Frankie fece un capolavoro in Gara 2 portando la Suzuki alla prima vera vittoria nel mondiale SBK e sul podio url&ograve; a Batta: &ldquo;Prepara il portafoglio perch&eacute; non ci credevi nemmeno te che avremmo vinto subito!&rdquo;. Nel team l&rsquo;atmosfera era davvero amichevole e familiare soprattutto per la bravura del &ldquo;Moro&rdquo; (Alberto Colombo) ma il compagno di team Katsuaki Fujiwara sembrava remare contro e con il suo meccanico giapponese seminava zizzania perch&eacute; non credeva che la sua moto fosse identica a quella di Chili, visto il divario di risultati.  A Misano, nel 2000, Chili cadde e si ruppe una clavicola, cos&igrave; decise di fugare ogni dubbio al giapponese cedendogli la propria moto per Gara 2 ma con la raccomandazione di non toccare nulla nel set up. Con la moto preparata da Chili, Fujiwara arriva addirittura sul podio e cacci&ograve; via il suo meccanico ringraziando Frankie e dicendo a tutti i vertici della Suzuki che Chili era davvero un grandissimo tecnico. Frankie ha sicuramente segnato la storia della Suzuki ma anche del Team Batta, tanto che in tutta la sua lunghissima carriera questi tre anni rimangono un periodo che lui stesso ricorda con grande affetto e gratitudine.  Kevin Schwantz, l&#39;uomo simbolo della Suzuki 

Grazie al bolognese, la Casa giapponese entr&ograve; stabilmente nell&rsquo;elite della Superbike: vittorie, podi, scivolate e duetti irripetibili con il team manager Batta

SBK: Pierfrancesco Chili-Suzuki, la strana coppia

Parlare di Francis Batta (pronunciato con la &ldquo;a&rdquo; finale accentata), meglio conosciuto come Francesco Batta, significa spaziare in un trentennio leggendario di avventure, team, gare e piloti. Chi pensa che Batta sia soltanto un team manager di squadre titolate e molto vittoriose si sbaglia perch&eacute; Francesco &egrave; molto di pi&ugrave;: un personaggio vulcanico, carismatico, illuminato che ha avuto una grandissima influenza nel mondo delle moto e delle competizioni. In pochi sanno che buona parte delle fortune del mondiale Superbike si deve alle sue capacit&agrave; di organizzatore. Appena acquisito il mondiale SBK, Maurizio Flammini non aveva ancora le idee molto chiare sul potenziale di questo campionato e soprattutto era coinvolto in numerosi altri progetti come la Formula 1 a Roma e altro. Quindi decise di affidarsi a Batta per far decollare questa strana formula con moto a quattro tempi derivate da modelli stradali. Il belga, in passato team manager nel Motomondiale con la Sanvenero e con la Cagiva nella 125 e nella 500, aveva un budget limitatissimo ma escogit&ograve; subito una serie di idee geniali e poco costose che fecero partire la SBK con il piede giusto.    La storia di Barry Sheene, fenomeno fuori e dentro la pista  Il ruolo di Batta nell&#39;evoluzione della SBK   Innanzitutto comprese che senza andare in TV non avrebbe mai fatto capire a nessuno che spettacolo era questa strana SBK. Tuttavia non esisteva un budget tale da portare le telecamere e la regia e pagare gli operatori e i tecnici con relativi viaggi e alloggi. Dopo averci riflettuto ebbe un&rsquo;idea geniale: su ogni pista avrebbe preso alcuni operatori locali dotati di telecamera e videoregistratore e posizionati a ogni curva li comandava via radio dicendo loro cosa e chi riprendere. Al termine di ogni gara si fiondava nel suo Executive Van dove erano presenti nove lettori e lui montava una gara perfetta come fosse una vera diretta. Alle 2 di notte spediva le cassette a tutte le TV del Mondo, che cos&igrave; iniziarono a passare le prime immagini di queste gare pazzesche, molto diverse dal Motomondiale.  Altra mossa coraggiosa fu quella di affidare il commento italiano a TMC consigliando un telecronista folle e molto fuori dai canoni classici delle normali telecronache. Con la sua compagna Patricia e soltanto cinque persone Batta cre&ograve; una vera macchina da guerra che organizzava e gestiva un vero Mondiale in modo professionale e decisamente in controtendenza. Altra intuizione geniale fu quella di cambiare le regole del paddock trasformandolo da subito nel cuore pulsante di questo campionato. Porte aperte in tutte le Hospitality e clima molto amichevole, per trattare sempre in modo democratico tutte le problematiche di una macchina organizzativa che vedeva grossi interessi scontrarsi in pista e fuori. Il centro di tutto era chiamato elegantemente Executive Van, ma era soltanto un imponente autobus a due piani dove stazionavano manager e piloti. In poche stagioni Batta riusc&igrave; a portare tantissimo pubblico sugli spalti e ascolti TV incoraggianti. Di fronte a tale successo, Maurizio Flammini decise di prendere in prima persona la gestione della SBK affidandolo al giovane fratello Paolo, aprendo le porte a Francesco Batta per una lunga e vittoriosa carriera di team manager, in cui aveva debuttato in precedenza nella classe 500 con la Cagiva.  Paolo Ciabatti: &ldquo;Troy Bayliss &egrave; stato il ducatista per eccellenza&rdquo;  Pirovano e Chili   Come sede del Team Alstare, Batta prese in Belgio una bellissima ex fabbrica di marmellate: al piano terra officine e banchi motore, poi al primo piano un team di designer e architetti che inventarono le famosissime e coloratissime livree delle moto e dei van mostrando a tutti che una moto da gara, oltre che veloce ed efficiente, poteva essere anche colorata e bella. L&rsquo;inizio fu con Ducati in Supersport con il compianto Michael Paquay e Marco Lucchinelli. Il pilota belga vinse subito il titolo europeo Supersport che ancora non aveva titolazione iridata. L&rsquo;anno seguente Batta ingaggi&ograve; Fabrizio Pirovano che rimase legato alla sua squadra e alla sua famiglia fino alla scomparsa, nel giugno 2016. Pirovano e Batta formarono un sodalizio in grado di cambiare la storia della SBK. Non soddisfatti del rapporto con la Ducati, Pirovano e Batta si fecero affidare le Suzuki 600 per il neonato mondiale Superport e il titolo mondiale arriv&ograve; subito, nel 1998.  Questa vittoria convinse la Suzuki ad affidare tutte le sue moto ufficiali al Team Alstare che l&rsquo;anno successivo - con la livrea iconica della birra Corona - schier&ograve; Frankie Chili sulla quattro cilindri GSX-R 750 che fino ad allora aveva raccolto pochissime vittorie e soltanto con le wild card. Nel 1999 arrivarono due stupende vittorie ma soprattutto per la prima volta la Suzuki si ritrov&ograve; sempre in bagarre con i migliori: bast&ograve; una sola stagione per avere il maggior numero di risultati della storia della Suzuki in SBK convincendo la Casa nipponica a impegnarsi maggiormente, dato che la GSX-R scontava sempre un notevole gap di potenza rispetto alle bicilindriche mille. Cos&igrave; al cambio di regolamento che nel 2003 port&ograve; tutte le moto a mille di cilindrata, Batta pot&egrave; schierare la bellissima GSX-R 1000 K5.    Corser e Biaggi   Se i tre anni di grandi soddisfazioni e successi con Chili e la 750 avevano aperto la strada, il sogno iridato si concretizz&ograve; nel 2005 con l&rsquo;australiano Troy Corser. Subito dopo, Francesco e Pirovano iniziarono ad accarezzare un&rsquo;idea molto suggestiva e potente: portare in SBK un quattro volte campione del Mondo nei GP come Max Biaggi. Pilota velocissimo e famosissimo. Un anno di trattative e nel 2007 arriv&ograve; davvero Biaggi nel Team Alstare. Fu chiaro a tutti che sarebbe stata una stagione particolare e che il romano avrebbe dato davvero un enorme impulso a questa categoria. Nei primi test invernali a Vallelunga si presentarono 10.000 fans scatenati del Corsaro e nella prima gara in Qatar in sala stampa erano presenti 150 giornalisti da tutto il Mondo. Esattamente come nel suo debutto in 500, Max riusc&igrave; a vincere al debutto in SBK portando l&rsquo;interesse alle stelle. Max avrebbe potuto conquistare il titolo gi&agrave; in quella stagione ma problemi di consumo con le gomme e piccoli infortuni negarono il Mondiale al Team Alstare, che purtroppo l&rsquo;anno successivo perse lo storico sponsor Corona e dovette rinunciare al Veloce Romano per il meno oneroso Max Neukirchner. La squadra ritorn&ograve; al vertice nel 2010 con Leon Haslam che si install&ograve; in testa alla classifica provvisoria del Mondiale fino alla settima prova, in un&rsquo;annata da tre vittorie e 14 podi, in un intenso ed emozionante duello con Biaggi, passato all&rsquo;Aprilia.    Alla fine il titolo sfugg&igrave; a Leon per un motore andato in fumo a Imola e Batta inizi&ograve; a disamorarsi di questa fase moderna di un mondiale SBK che lui stesso aveva contribuito a far nascere e crescere con criteri e modelli per&ograve; molto diversi dal nuovo corso storico targato Dorna. Batta ebbe un&rsquo;altra brillante intuizione riportando la storica factory Bimota nel Mondiale 2014 con la veloce BB3 con motore BMW ma la Casa riminese non fu mai in grado di produrre e vendere il numero minimo di esemplari necessari per l&rsquo;omologazione. Fu l&rsquo;epilogo di uno dei team pi&ugrave; rappresentativi della storia della Superbike: Batta rimane uno dei personaggi pi&ugrave; innovativi, geniali e produttivi di quel primo lungo periodo di un Mondiale che senza di lui non avrebbe raggiunto certe vette di popolarit&agrave; e successo. Grazie a figure mitiche come Batta, Oscar Rumi, Eraldo Ferracci, Neil Tuxworth, Nepoti, Caracchi e Farn&egrave;, il Mondiale Superbike &egrave; entrato subito nel cuore dei motociclisti di tutto il Mondo.  La storia della Suzuki, tra tradizione e famiglia 

Il belga ha vissuto due fasi nel paddock delle derivate dalla serie, e prima come organizzatore e quindi come team manager &egrave; stato innovatore e vincente. Con Alstare, la Suzuki ha rotto il ghiaccio in Supersport, con l&rsquo;indimenticato Pirovano, e poi ha trionfato in Superbike con Corser

SBK: le avventure del vulcanico Francis Batta

Marcello Fancello ama davvero il mondo delle moto. In sella sin da piccolo, il quarantasettenne lombardo ha guidato modelli di ogni tipo e cilindrata, andando forte sia con le due tempi che con le quattro. Lui, originario di Milano e residente nella Provincia di Como, ha diversi interessi, ma le due ruote restano al primo posto.  Infatti, &egrave; da tempo impegnato in competioni dallo spirito vintage. Ad esempio, quest&#39;anno ha visto il via dell&#39;Europeo Endurance Classic, specialit&agrave; condivisa assieme al Pleba Racing Team, formazione che si &egrave; unita al 117 Racing Team, che ha sede a pochi passi da casa.  I compagni di avventura si chiamano Nico Bonifacio e Franco Manzati, mentre nel garage la supervisione di Giuseppe Plebani. Una compagine che cura ogni dettaglio e la livrea dedicata lo dimostra. Nell&#39;appuntamento tenutosi al Paul Ricard nello scorso maggio, su ben 45 equpaggi iscritti, per loro una eccellente quarta posizione, che sarebbe potuta essere pure un risultato da podio, senza qualche episodio sfortunato.  Scandinavia o Lombardia? Buono il gelato alla fragola     In un viaggio speso nei Paesi del Nord di qualche anno fa, Marcello aveva fame. O meglio, Fancelli aveva voglia di qualcosa di buono, avete presente questa frase?! Ebbene, ecco l&#39;ingresso in un fast food del posto. Nella lista - gigante - dei dessert, appare la parola magica &quot;majustii&quot;.  Che sar&agrave; mai sto majustii? Che vuol dire? Affidiamoci alle foto, che &egrave; meglio. Ah, certo: si tratta di un gelato con base alla fragola, chiss&agrave; che buono deve essere! A pensarci sopra, majustii somiglia al dialetto milanese: infatti, &quot;magiuster&quot; significa fragola ed il plurale non cambia: magiuster.  Da l&igrave; in poi, il veloce pilota ha assunto il soprannome definitivo: ecco a voi, Signore &amp; Signori, il forte e tecnico Magiuster, un gentleman rider che si tratta bene a tavola ed ancor di pi&ugrave; tra i semimanubri. Il controllo totale della GSX-R numero 20 ne &egrave; la conferma: &quot;So che la Suzuki portata da noi in gara non sia un modello 2021 - ha raccontato - ma le gare Endurance Classic ci piacciono, eccome! E poi, tra i cordoli, le sensazioni offerte sono simili a quelle provate sulle moto moderne&quot;.  Lavoro &amp; sacrificio     Dal luned&igrave; al venerd&igrave; (spesso pure il sabato) Marcello lavora. Nella sua professione di tecnico specializzato, Fancelli &egrave; stimato ed apprezzato. Insomma, Magiuster &egrave; bravo nel suo lavoro. Poi, appena si libera, salta in sella: che sia una R1 a scoppi irregolari o una GSX-R a carburatori, fa lo stesso, perch&eacute; il divertimento nella guida &egrave; ai medesimi livelli.  Allenarsi &egrave; dura quando di giorno si fa altro per vivere. Il suo caso &egrave; lo stesso di numerosi piloti amatoriali, ma non vogliamo definirli tali. Preferiamo chiamarli &quot;innamorati&quot; delle moto, infatti, i sacrifici compiuti per poter gareggiare in sicurezza sono tanti.  Marcello Fancello detto &quot;Magiuster&quot; ha le idee chiare e conviene dargli retta: &quot;Ragazzi, fidatevi: prendete la moto e portatela in pista. Evitate le scorribande di strada: ci si fa male, potreste coinvolgere altre persone, rischiando la vostra e l&#39;altrui incolumit&agrave;, oltre alla patente. Recatevi in autodromo e sfogate l&igrave; la vostra passione. Magari, iscrivendovi ad un bel Trofeo organizzato ad hoc&quot;.  Piccoli Rea crescono: Jake sulle orme di pap&agrave; Johnny 

L&#39;esperto pilota lombardo &egrave; un asso nelle gare vintage: &quot;Con la Suzuki GSX-R 750 del 1985 vivo sensazioni da moto moderne&quot;

Marcello Fancello, la &quot;fragola&quot; pi&ugrave; veloce dell&#39;Europeo Endurance Classic

In queste pagine si parla spesso degli avanzamenti compiuti in campo motoristico nel corso degli anni. Questi miglioramenti hanno interessato non soltanto la parte meccanica del motore ma anche la fluidodinamica e la termodinamica. Per mezzo del computer e dei sofisticati programmi specifici messi a punto dai tecnici quello che accade nei sistemi di aspirazione e di scarico nelle pi&ugrave; svariate condizioni di funzionamento dei motori pu&ograve; essere oggi visualizzato con grande precisione. Le strumentazioni elettroniche sono diventate via via pi&ugrave; raffinate (ad esempio, sono da tempo una realt&agrave; i sensori che si affacciano direttamente nella camera di combustione) e hanno consentito di avere una dettagliata conoscenza dei fenomeni che hanno luogo all&rsquo;interno dei cilindri durante le varie fasi del ciclo.  Officina: le sollecitazioni sono anche termiche  Lo studio della combustione   Grazie a questi poderosi mezzi, non disponibili in passato, anche le modalit&agrave; con le quali avviene la formazione della miscela aria-carburante e quelle con le quali ha luogo la combustione hanno potuto essere studiate in dettaglio. Alcuni risultati sono eclatanti, con miglioramenti che hanno luogo in maniera assai vistosa e in maniera quasi repentina, in seguito alla adozione di particolari soluzioni o tecnologie che hanno consentito di compiere veri e propri &ldquo;salti evolutivi&rdquo;. &Egrave; il caso ad esempio delle quattro valvole per cilindro, la cui affermazione ha consentito un rapido incremento delle prestazioni. Lo stesso &egrave; avvenuto in seguito al passaggio, per i modelli pi&ugrave; sportivi, al raffreddamento ad acqua. Molto significativo &egrave; quanto accaduto in Formula 1 grazie all&rsquo;impiego di molle pneumatiche per il rischiamo delle valvole da parte dei diversi costruttori. I regimi di rotazione sono subito aumentati e con loro le potenze dei motori. Molti altri miglioramenti per&ograve; sono il risultato un lento ma incessante lavoro di sviluppo che ha interessato perfino i dettagli all&rsquo;apparenza meno significativi.  In questi casi i cambiamenti sono avvenuti con gradualit&agrave;. Il miglior modo per valutare l&rsquo;evoluzione dei motori &egrave; quello di fare ricorso ai numeri. Quando si parla di parametri motoristici il primo al quale si fa riferimento &egrave; in genere il rapporto corsa/alesaggio (C/D), del quale questa rubrica si &egrave; gi&agrave; occupata pi&ugrave; volte in passato. Come noto vengono detti quadri i motori nei quali alesaggio e corsa hanno lo stesso valore (C/D = 1), superquadri quelli a corsa corta (C/D inferiore a 1) e sottoquadri quelli nei quali, al contrario, la corsa &egrave; superiore all&rsquo;alesaggio (C/D maggiore di 1). Effettivamente col tempo questo parametro &egrave; cambiato in misura molto sensibile. Per decenni il rapporto C/D &egrave; stato molto elevato nelle moto inglesi. Ancora negli anni Sessanta e all&rsquo;inizio del decennio seguente, quando le grandi case storiche stavano ormai per uscire di scena, in Inghilterra soltanto un paio di costruttori erano scesi a misure &ldquo;quadre&rdquo; nelle loro monocilindriche di 500 cm3 e nelle bicilindriche di maggiore cilindrata.  Moto Guzzi e Mv Agusta   All&rsquo;altro estremo troviamo la Guzzi che fin dall&rsquo;inizio della propria attivit&agrave; per i suoi monocilindrici di 500 cm3 ha adottato un alesaggio sensibilmente superiore alla corsa (88 x 82 mm, C/D = 0,93). Negli anni Cinquanta in Italia non mancavano certo i motori di serie a corsa lunga ma la maggior parte di quelli di nuova progettazione aveva misure pi&ugrave; o meno quadre. Diverse moto poi erano gi&agrave; a corsa corta. Stranamente i pi&ugrave; celebrati motori da corsa italiani erano invece a corsa lunga. Nelle Gilera e nelle MV 500 a quattro cilindri il rapporto C/D era 1,11 e 1,06. Quest&rsquo;ultimo valore si ritrovava anche nelle 125 bialbero MV e Mondial. Per realizzare la 250 quest&rsquo;ultima azienda ha incrementato soltanto leggermente la corsa e al tempo stesso ha aumentato molto l&rsquo;alesaggio, il che ha portato a un rapporto C/D pari a 0,752, valore record per l&rsquo;epoca. &Egrave; interessante osservare che la Guzzi, dopo aver conquistato il mondiale 350 nel 1956 con un monocilindrico che aveva un rapporto C/D di 0,868, andando contro una tendenza ormai chiara per la stagione successiva ha realizzato un nuovo motore a corsa lunga (C/D 1,04)! Insomma ha fatto &ldquo;macchina indietro&rdquo;&hellip;  Suzuki, Aermacchi e Honda   Qualcosa del genere &egrave; successo molti anni dopo anche in casa Suzuki con la GSX-R 750. Il quadricilindrico di Hamamatsu era nato nel 1984 (anno di presentazione della moto, l&rsquo;entrata in produzione &egrave; avvenuta pochi mesi dopo) con un C/D pari a 0,696 e in seguito ha subito un lungo sviluppo che ha visto numerose modifiche e alcune complete riprogettazioni. Bene, le ultime versioni della moto, costruite dal 2010 in poi, avevano esattamente lo stesso C/D. Potrebbe sembrare una osservazione di poca importanza se non fosse per il fatto che la Suzuki aveva in due diversi periodi messo in produzioni versioni del motore con una corsa sensibilmente minore di quella originale (C/D 0,612 e 0,639), salvo poi tornare sui suoi passi. Negli anni Sessanta c&rsquo;&egrave; stata una grave crisi di mercato e per diverso tempo di modelli veramente nuovi non ne sono apparsi. In Italia le moto pi&ugrave; diffuse erano le 125, seguite a distanza dalle 250 e il rapporto C/D era di norma compreso tra 1 a 0,8 circa.  Soltanto l&rsquo;Aermacchi 250 era a corsa lunga (1,09). Per quanto riguarda le moto da competizione, si andava generalmente da 0,92 a 0,85, valore sotto il quale non scendeva nessuno. La Honda probabilmente lo avrebbe fatto, ma con tanti cilindri e per di pi&ugrave; assai vicini tra loro non poteva farlo, anche perch&eacute; il raffreddamento era ad aria. &Egrave; interessante qui osservare che il primo titolo iridato della 500 conquistato da una moto a corsa corta &egrave; arrivato soltanto 17 anni dopo l&rsquo;istituzione del Mondiale! Nella seconda met&agrave; del decennio per&ograve; gradualmente la situazione &egrave; cambiata: stava per iniziare l&rsquo;era delle &ldquo;maximoto&rdquo;. La settimana prossima l&rsquo;argomento verr&agrave; ripreso fino ad arrivare ai giorni nostri e al &ldquo;dualismo&rdquo; esistente in MotoGP tra le architetture in linea e a V, in merito al quale appaiono opportune diverse considerazioni.  Officina: il significato di Lobe Center 

Oggi &egrave; analizzata tramite i sofisticati programmi con cui vengono progettati i motori

Officina: l&#39;importanza della fluidodinamica

Alla fine degli anni Sessanta, le moto sono tornate alla ribalta dopo un periodo di grave crisi. Sono apparsi nuovi modelli di grande interesse tecnico destinati allo svago e all&rsquo;impiego sportivo e non soltanto alla mobilit&agrave; urbana di basso costo, per la quale c&rsquo;erano i ciclomotori e gli scooter. E il mercato &egrave; anche diventato pi&ugrave; globale. Stava iniziando l&rsquo;era delle maximoto e, per i pi&ugrave; giovani, delle 125 da regolarit&agrave;, utilizzabili su strada e con motori a due tempi via via pi&ugrave; performanti. I modelli pi&ugrave; importanti erano quasi tutti di nuova progettazione e stavano contribuendo non poco all&rsquo;avanzamento della tecnica. Si sono affermati definitivamente schemi costruttivi pi&ugrave; evoluti e diversi costruttori hanno abbracciato con decisione la strada dei motori con pi&ugrave; di due cilindri, aperta dalla famosa Honda CB 750 Four.  Officina: le sollecitazioni sono anche termiche  L&#39;evoluzione&nbsp;   Lo sviluppo successivo, per&ograve;, non &egrave; stato rapido come forse ci si poteva aspettare. I parametri motoristici si sono modificati lentamente e alcune soluzioni di importanza fondamentale, come le quattro valvole per cilindro e il raffreddamento ad acqua, hanno tardato a imporsi. Cautela e magari conservatorismo da parte dei tecnici, esigenze di contenere i costi di fabbricazione e influenza del marketing hanno avuto un peso determinante in questo contesto. Il rapporto corsa/alesaggio (C/D) della gi&agrave; citata CB 750 Four era 1,03 e quello della CB 900 F Bol d&rsquo;Or era 1,06. Dunque le due quadricilindriche di punta con le quali la pi&ugrave; grande casa del mondo ha iniziato e ha terminato gli anni Settanta erano entrambe a corsa lunga, anche se di poco! Stupisce che nella seconda met&agrave; del decennio la Honda abbia messo in produzione la turistica CX 500, nella quale il rapporto C/D aveva il valore record di 0,66.  Chiaramente la moto era stata progettata da altro gruppo di lavoro; nel suo motore c&rsquo;erano soluzioni avanzatissime, come il raffreddamento ad acqua e le quattro valvole per cilindro, ma al tempo stesso spiccava anche, in senso opposto, la distribuzione ad aste e bilancieri! Nel decennio in questione, che ha visto l&rsquo;ingresso nel settore delle grosse 4T bialbero della Kawasaki e della Suzuki, il rapporto corsa/alesaggio nei quadricilindrici di 750 e di 1000 cm3 indicativamente andava da 0,87 a 1,08. Decisamente significativa &egrave; stata l&rsquo;entrata in produzione (nel 1979) della Ducati Pantah, nella quale questo rapporto era nettamente pi&ugrave; basso (0,784, come in tutti i mono 250 costruiti in precedenza dalla casa bolognese); si trattava per&ograve; di una bicilindrica. Gli anni Ottanta hanno visto l&rsquo;affermazione definitiva delle quattro valvole per cilindro e non soltanto nei modelli di prestazioni pi&ugrave; elevate.  Anche il rapporto C/D &egrave; diminuito nettamente, raggiungendo valori compresi tra 0,69 e 0,78. Si &egrave; trattato di un passo in avanti molto significativo, reso possibile dalla adozione del raffreddamento ad acqua, che consentiva di diminuire molto lo spessore delle pareti tra le canne dei cilindri. Senza aumentare la larghezza del motore e ferma restando la cilindrata, grazie ad esso era possibile adottare alesaggi maggiori. I motori Honda a V di 90&deg; (VF e VFR), nei quali non c&rsquo;erano problemi di larghezza, sono stati i primi quadricilindrici nei quali il rapporto in questione &egrave; sceso leggermente al di sotto di 0,7. Pure le Suzuki GSX-R con raffreddamento misto sono arrivate a un valore analogo, ma per loro il passaggio alla refrigerazione ad acqua &egrave; ben presto diventato inevitabile.  Negli anni Novanta la corsa alla riduzione del rapporto C/D &egrave; continuata, anche se in maniera meno evidente. Nella celebre CBR 900 esso era 0,828, valore tutt&rsquo;altro che spinto. All&rsquo;altro estremo del campo troviamo la Kawasaki ZX-7R di met&agrave; decennio con il suo 0,612. Gli anni Duemila hanno visto un ulteriore avvicinamento ai valori odierni. I quadricilindrici 1000 sono diventati protagonisti dei mondiali Superbike (andandosi ad aggiungere ai bicilindrici Ducati, dapprima di 1000 e quindi di 1200 cm3 ) e di conseguenza &egrave; su di essi che si &egrave; concentrato principalmente lo sforzo dei costruttori teso all&rsquo;incremento delle prestazioni. I 1000 giapponesi hanno sub&igrave;to a pi&ugrave; riprese rivisitazioni, che hanno interessato anche il rapporto C/D. Oltre un dato valore non si &egrave; potuti andare per via del regolamento, che a un certo punto ha posto un limite al massimo alesaggio impiegabile. Anche senza di esso, per&ograve;, con una architettura in linea non sembrava esserci un ulteriore margine di sviluppo in tale senso. Oggi i 1000 quadricilindrici di serie di prestazioni pi&ugrave; elevate hanno rapporti C/D compresi tra 0,725 e 0,598.  Valore limite   Quest&rsquo;ultimo valore &egrave; anche quello adottato dalle MotoGP, il cui regolamento indica in 81 mm, il valore massimo consentito per l&rsquo;alesaggio, indipendentemente dalla disposizione dei quattro cilindri. Senza questa norma i motori sarebbero tutti a V, dato che con tale architettura l&rsquo;ingombro trasversale dei singoli cilindri non risulta limitato come nei quadricilindrici in linea. In questi ultimi, infatti, aumentando l&rsquo;alesaggio cresce inevitabilmente anche la larghezza del motore. Oltre un certo valore non ci si pu&ograve; spingere perch&eacute; sarebbe penalizzata l&rsquo;aerodinamica (eccessiva sezione frontale) e verrebbe ridotta la possibilit&agrave; di inclinazione in curva. Nei quadricilindrici a V si impiegano tre soli supporti di banco e non cinque, come in quelli in linea. Le perdite per attrito sono quindi leggermente minori e perci&ograve; &egrave; un poco migliore il rendimento meccanico.  D&rsquo;altro canto, mentre un motore a V pu&ograve; consentire una eccellente centralizzazione delle masse, uno in linea pu&ograve; permettere di spostare pi&ugrave; in avanti il baricentro. E di sfruttare l&rsquo;effetto bilanciere per ottimizzare il comportamento in curva. Insomma sui circuiti con lunghi rettilinei sembrerebbero essere leggermente avvantaggiati i motori a V mentre quelli pi&ugrave; &ldquo;guidati&rdquo; ovvero con molte curve sembrerebbero esserlo quelli in linea. La differenza &egrave; comunque molto ridotta. Per terminare, ricordiamo che nelle auto di F1 nei primi anni Duemila il rapporto C/D &egrave; arrivato addirittura a 0,41.  Officina: la lubrificazione e la riduzione degli attriti 

Negli anni, &egrave; diminuita la corsa ed &egrave; aumentato l&rsquo;alesaggio, per incrementare le prestazioni

Officina: com&#39;&egrave; cambiato il rapporto corsa/alesaggio

Viene da sorridere, guardando l&rsquo;elenco dei presidenti succedutisi al vertice della Suzuki dalla fondazione a oggi. Sono sette e portano tutti lo stesso cognome: Suzuki. Osamu, che &egrave; stato in carica due volte e oggi &egrave; chairman, era nato Matsuda ma ha sposato la nipote del fondatore, Shoko, e ne ha assunto il cognome.  MotoGP: Suzuki rinnova con Dorna fino al 2026  Parola d&#39;ordine: innovare   Il presidente attuale, Toshihiro, &egrave; suo figlio. Difficile definire &ldquo;a conduzione familiare&rdquo; un colosso con un capitale sociale superiore a 1,18 miliardi di Euro, con circa 15.500 dipendenti - nel marzo 2019, ultimo dato utile -, ha sedi e filiali in tutto il Mondo, &egrave; impegnato nei settori moto, auto e motori marini. Per&ograve; &egrave; indicativo dello spirito che lo permea: la componente &rdquo;tradizione&rdquo; &egrave; fortissima, almeno quanto l&rsquo;orgoglio. La Suzuki a volte ha proposto innovazioni rivoluzionarie, altre volte ha preso strade poco logiche agli occhi di un europeo, ma l&rsquo;ha sempre fatto motu proprio, di sua iniziativa, mai cercando di allinearsi alla concorrenza.    Gi&agrave; Michio Suzuki, il fondatore, la pensava cos&igrave;, e con questo spirito nel 1908 invent&ograve; un telaio da filatura dieci volte pi&ugrave; veloce dei concorrenti. Fu l&rsquo;inizio della sua fortuna: cominci&ograve; a costruirli in serie e un anno dopo fond&ograve; la Suzuki Loom Manufacturing Company. Michio aveva appena 22 anni, e ne aveva 33 quando la sua impresa divenne una societ&agrave; per azioni che esportava in tutto il Sud-Est asiatico. Il ragazzino figlio di coltivatori di cotone faceva strada in fretta, e parallelamente nel 1937 complet&ograve; il prototipo di un&rsquo;automobile, progetto interrotto dalla Seconda Guerra mondiale che vide lo stabilimento della Suzuki Corporation convertirsi alla produzione di munizioni e subire pesanti bombardamenti. La ripartenza post-bellica fu faticosa e la svolta venne dalla pigrizia e dal genio di un altro Suzuki, il figlio Shunzo, che nel 1957 divenne il secondo presidente.  Amava andare a pescare in bicicletta ma quando i forti venti soffiavano in senso opposto pedalare diventava faticoso: ci voleva un motore ausiliario: nacque cos&igrave; nel 1952 la prima bicicletta a motore Suzuki, &ldquo;Power Free&rdquo;. Fu un successo, replicato dal modello Diamond Free, pi&ugrave; potente. Il consenso fu tale che la Suzuki Loom (telai) divent&ograve; Suzuki Motor Co. Ltd. e nel 1955 mise sul mercato la prima auto, la Suzulight, una vetturetta con innovative sospensioni a braccetti oscillanti e sterzo a cremagliera.  &nbsp;Le cose cominciavano ad andare molto bene, nel 1958 venne selezionato il logo Suzuki - la famosa &ldquo;S&ldquo; - fra pi&ugrave; di 300 proposte, progettato da Masamichi Tezeni; nel 1965 venne posto in vendita il primo motore fuoribordo Suzuki, il D55 a due tempi da 5,5 CV. Nel 1970, 50&ordm; anniversario dell&rsquo;azienda, comparve la prima auto a propulsione elettrica, e nello stesso anno venne commercializzato Jimny, il primo fuoristrada 4x4; nel 1971 arrivarono sia le motoslitte che le imbarcazioni di medie dimensioni e gli spazzaneve.    Si lavorava anche sul fronte delle corse e proprio 60 anni fa, nel 1960, vennero iscritte tre 125 ufficiali al Tourist Trophy, primo timido passo a cui segu&igrave; l&rsquo;anno dopo la partecipazione a parte del Motomondiale nelle classi 125 e 250, senza che venisse raccolto un solo punto. Ma a fine stagione arriv&ograve; Ernst Degner e con lui i titoli iridati piloti e costruttori classe 50 nel 1962, l&rsquo;inizio di una avventura che di l&igrave; al 1970 avrebbe portato nove titoli piloti e otto costruttori tra 50 e 125. Sarebbe poi proseguita nelle cilindrate maggiori, e nel frattempo cominciarono ad arrivare i risultati nel Motocross: nel 1971 il primo titolo iridato, con Joel Robert, cui ne seguirono altri 28 nelle varie categorie &ndash; tra i quali il primo di un italiano in questa specialit&agrave;, Michele Rinaldi in 125 nel 1984 &ndash; pi&ugrave; 31 titoli costruttori e otto (tre piloti e cinque costruttori) nel Supercross americano.  I successi dentro e fuori la pista   Nella sua poliedrica espansione, la Suzuki non poteva rimanere inattiva tra le moto di produzione. Nel 1965 la T20 Super Six, 250 cm&sup3; due tempi da 160 km/h, bicilindrica e con il cambio a sei marce, lanci&ograve; la Casa di Hamamatsu sulla scena internazionale. Ma &egrave; nel 1970 che cominci&ograve; la leggenda, con l&rsquo;importazione in Italia della bicilindrica T500 J Titan, seguita nel 1971 dalla GT750 tre cilindri e l&rsquo;anno dopo dalla GT380, pure tre cilindri, tutte a due tempi. Sarebbe poi passata al quattro tempi nel 1977, con la quattro cilindri GS750, seguita nel 1978 dalla GS1000 che fece faville nella Superbike americana, vincendo con Wes Cooley e Mike Baldwin la prima edizione della 8 Ore di Suzuka. Nel Motomondiale 1974 venne schierata per la prima volta la RG 500, rivoluzionaria quattro cilindri in quadrato: due volte iridata con Barry Sheene (1976 e 1977) e altre due con Marco Lucchinelli (1981) e Franco Uncini (1982), fu per molti anni il cavallo di battaglia dei piloti privati. E mentre Lucky sventolava la sua iride, la Suzuki sventolava la Katana: con lo stesso nome della spada dei samurai entrava in commercio una quattro cilindri sportiva dalle linee aggressive e shockanti, prodotta nelle cilindrate 750 e 1000.  Le portarono via la scena nel 1985 la GSX-R 750, 100 CV per 176 kg, che avvi&ograve; una nuova generazione di supersportive e in quello stesso anno vinse la 24 ore di Le Mans, e la RG 500 Gamma, stradale due tempi quattro cilindri in quadrato fortemente ispirata alla moto da GP; ma quella con cui nel 1993 Kevin Schwantz vinse il Mondiale aveva gi&agrave; i cilindri a V.  Della Casa di Hamamatsu il texano &egrave; stato a lungo la bandiera, come in precedenza lo era stato Sheene, perch&eacute; l&rsquo;azienda ha sempre cercato di coltivare i propri piloti e tenerseli poi per tutta la carriera, richiamandosi a una filosofia&hellip; familiare. Tent&ograve; di farlo anche con Kenny Roberts Junior, figlio del grande King Kenny, che nel 2000 vinse il titolo della 500. Ma di l&igrave; alla fine del 2005, quando torn&ograve; alla squadra di pap&agrave;, Junior non ottenne altri risultati di rilievo: l&rsquo;impegno della Casa si era ridotto e le moto realizzate per la neonata MotoGP non erano competitive. E Kenny jr peraltro non aveva lo stesso spessore del padre.  Cos&igrave; il 1999 pi&ugrave; che per il suo ingaggio &egrave; da ricordare per la comparsa della GSX-R 1300 Hayabusa, ipersportiva dalle prestazioni mozzafiato, per la presentazione della SV 650, bicilindrica d&rsquo;accesso che avrebbe fatto furore, e per il Burgman 400, capostipite dei maxiscooter. Nel 2002 arrivarono anche il gigantesco bicilindrico Burgman 650, primo scooter con il cambio sequenziale, e la V-Strom 1000, seguita due anni dopo dalla 650, criticate per la linea eppure apprezzatissime per le caratteristiche eccellenti. Il tutto, parallelamente all&rsquo;evoluzione in campo auto, con Maruti, Vitara e Swift. E nel 1990 il nome dell&rsquo;azienda divenne Suzuki Motor Corporation, sottolineando l&rsquo;impegno nei vari settori dell&rsquo;automotive.  Come dimenticare poi nel 2005 il lancio dello slogan &ldquo;Way of Life&rdquo;, biglietto da visita dell&rsquo;azienda, l&rsquo;inaugurazione nel 2009 del Suzuki Plaza, il centro espositivo che raccoglie la storia Suzuki dalle origini a oggi, ma soprattutto gli scossoni generati dall&rsquo;introduzione delle successive serie di GSX-R 1000 nel 2001 e nel 2005? Erano le icone della moto sportiva e portarono ad Hamamatsu enormi soddisfazioni soprattutto nella Superbike dove la presenza era semiufficiale, attraverso il Team Alstare: tra il 1999 e il 2011 la squadra belga colse numerose vittorie e nel 2005 il Mondiale con Troy Corser, mentre in Supersport con la GSX-R 600 conquist&ograve; i titoli 1998 e 1999 con Fabrizio Pirovano e St&eacute;phane Chambon. Con Alessandro Polita arriv&ograve; il titolo Superstock 2006, nello stesso anno in cui la naked GSR 600, look un po&rsquo; particolare ma efficiente ed economica, fu la moto pi&ugrave; venduta in Italia con 7745 unit&agrave;.  Sul piano delle vendite la musclebike B-King 1400 del 2008 fu accolta tiepidamente ma il suo compito era stupire e lo fece molto bene. La sostanza erano invece le nuove versioni 600 e 750 della GSX-R lanciate in quello stesso anno, seguite nel 2009 dalla 1000. Famiglia importantissima quella delle GSX-R, divenuta la sportiva per eccellenza nell&rsquo;immaginario collettivo e capace di toccare nel 2012 il milionesimo esemplare prodotto. Oggi siamo arrivati alla sesta generazione della 1000, lanciata nel 2016; sulle spalle un palmares di 12 titoli iridati nell&rsquo;Endurance, 10 nel campionato americano Superbike, otto vittorie nella 24 Ore di Le Mans e 17 al Bol d&rsquo;Or. Contemporaneamente alla GSXR/R sono stati presentati altri otto modelli, tra i quali V-Strom 1000/XT, V-Strom 650/XT, GSX-S750 e l&rsquo;ultima versione del Burgman 400.  Il ritorno in MotoGP   Dall&rsquo;anno prima, il 2015, &egrave; ripreso l&rsquo;impegno in MotoGP e sono arrivate le vittorie, con Maverick Vi&ntilde;ales nel 2016 e Alex Rins (due volte) nel 2019 (prima del titolo mondiale di Joan Mir). Due piloti, guardacaso, pescati direttamente dalla Moto2, con l&rsquo;intenzione di crearsi i campioni in casa. Perch&eacute; anche se il 15 marzo ha festeggiato il centesimo anniversario dalla fondazione del primo nucleo, la Suzuki Loom Manufacturing Company, la filosofia &ldquo;familiare&rdquo; non la cambia.  MotoGP, Suzuki in crisi di rendimento: dov&#39;&egrave; finita la costanza? 

Oltre cent&rsquo;anni fa nasceva la Suzuki Loom Manufacturing Company come societ&agrave; per azioni: l&rsquo;espansione dai telai da filatura ai motori non ha mutato la filosofia voluta dal fondatore Michio: ogni presidente della compagnia ha avuto il cognome Suzuki. E qui, i campioni, vengono allevati in casa, come fossero figli

La storia della Suzuki, tra tradizione e famiglia

La famiglia Bayliss conduceva una vita tranquilla, magari non agiata, per&ograve; avvolta da un clima di grande e invidiabile serenit&agrave;. I soldi erano pochi, il necessario per pagarsi un&rsquo;abitazione e riempire il frigorifero. Kim se la cavava bene nelle vesti di addetta alle vendite in un negozio di gioielli, Troy era un carrozziere e ristrutturava automobili, anche se preferiva le motociclette. Al braccio, al collo e sulle mani di lei pochi monili, fede matrimoniale a parte. Era elegante Kim, nel suo tailleur tutto stretto, sobrio e mai provocante. Lui, invece, era intutato come una giubba blu, si muoveva con una bicicletta e a ogni pedalata si potevano notare i calzini bianchi fare a botte con il mocassino nero, in un perfetto &ldquo;matrimonio pugliese style&rdquo;. L&rsquo;impegnativo mezzo di locomozione era utile per ci&ograve; che gli serviva: recarsi a lavoro e mantenersi in perfetta forma.  Come se saltare su e gi&ugrave; e attorno a una vecchia Holden da ristrutturare non bastasse a renderlo magro, agile, tonico. I luoghi preferiti dagli sposini erano le assolate e sabbiose spiagge di Taree, non &ldquo;commerciali&rdquo; e di grido quanto quelle della super nominata Gold Coast, ma comunque belle e piacevoli, ideali per rilassarsi. L&rsquo;apparente calma, per&ograve;, giorno dopo giorno era messa a repentaglio da un forte richiamo, pi&ugrave; che altro, da una vera passione.  Paolo Ciabatti: &ldquo;Troy Bayliss &egrave; stato il ducatista per eccellenza&rdquo;  Il richiamo della velocit&agrave;   Troy non ce la faceva pi&ugrave;. Dannazione. Vedersi sfrecciare davanti ai suoi occhi blu quella Kawasaki verde, rappresentava una provocazione, un richiamo alle armi. L&rsquo;istinto corsaiolo del non pi&ugrave; giovanissimo stava prendendo il sopravvento. Del resto, si trattava di una reazione normale: immaginate di imbrigliare Mike Tyson in una silenziosa e comoda camera di hotel e vedrete cosa produrrete. Una macchina da guerra che, una volta liberata dalla prigionia, &egrave; pronta a sparare raffiche di colpi. Il primo colpo messo a segno da Bayliss fu l&rsquo;acquisto di una Kawasaki ZXR 750. Impossibile per un passionale come lui resistere alla tentazione di possederla e il negozio in cui perfezion&ograve; l&rsquo;affare la sfoggiava in vetrina, davanti ad altri invitanti modelli. Il passo successivo, e inevitabile, avvenne con l&rsquo;iscrizione al campionato nazionale, del resto le spese da affrontare per la preparazione della moto erano, nonostante tutto, contenute. La voce pi&ugrave; pesante del budget era costituita dai viaggi. L&rsquo;Australia &egrave; un continente, spostarsi da Eastern Creek a Oran Park richiedeva soldi per il gasolio, ore di tempo e di navigazione. E fatica. Ma i buoni risultati lo incitavano a continuare, rinunciando qualche volta alle ormai classiche gite al mare.  Un bel giorno, arriv&ograve; a casa una telefonata dal responsabile del Team Suzuki Ansett Air Freight: &ldquo;Troy, che fai? Prepara tuta, casco, stivali e guanti. Si va a Phillip Island. Il Mondiale ci aspetta&rdquo;. Bayliss rivel&ograve; in seguito il suo pensiero, tutt&rsquo;ora censurabile ma comprensibile. &ldquo;C...., arrivo subito! Kim, prepara la valigia, devo andare a guidare una GSX-R nel mondiale Superbike&rdquo;. John Kocinski ancora lo ricorda. Povero Little John: non gli bast&ograve; vincere sull&rsquo;acqua la prima manche da neopilota Honda. Dopo la replica del compagno di squadra Aaron Slight, ecco l&rsquo;onta di subire un sorpasso all&rsquo;esterno, in un velocissimo e scivolosissimo curvone in contropendenza: &ldquo;Mah, non ci stavo capendo niente. Credo sia stata una wild card australiana a superarmi cos&igrave;. Mi sa che era quel Bayliss. Io avevo tutto da perdere, lui meno&rdquo;. Avr&agrave; avuto anche poco da perdere, Troy, pochi giorni prima del 28&deg; compleanno, ma due quinti posti in mezzo a gente come il gi&agrave; citato (e poi campione) Kocinski, Simon Crafar, Akira Yanagawa, Colin Edwards, Scott Russell, Pierfrancesco Chili, James Whitham e ovviamente il Re, Carl Fogarty, gli valsero una seconda telefonata.  La chiamata per il Mondiale   Era l&rsquo;autunno 1997, qualche mese dopo la memorabile impresa: &ldquo;Ehi Troy, a casa tutto bene? Perfetto. Dai, metti nella borsa stivali, tuta, guanti e casco. Si riparte per il Mondiale&rdquo;. Bayliss non rimase stupito dalla chiamata alle armi. Pi&ugrave; che altro, si chiese perch&eacute; il team manager Molenaar avesse elencato il vestiario da portare in un ordine dissimile da quello propostogli mesi addietro. Ognuno ha i suoi gusti. Michael Doohan &ndash; e non soltanto lui &ndash; rimase a bocca aperta. La RGV 250, messa insieme con filo e rattoppi, con il dannato Aussie volava. D&rsquo;accordo, Ralf Waldmann e Max Biaggi con le Honda &ndash; a giocarsi il titolo in quell&rsquo;ultima gara a Phillip Island &ndash; erano di un altro passo, ma Olivier Jacque, Takeshi Tsujimura e Tetsuya Harada dovettero difendersi dagli attacchi scatenati del numero 30, che perse la volata per il podio anche per una palese inferiorit&agrave; tecnica manifestata soprattutto in rettilineo. Perch&eacute; in curva, non ce n&rsquo;era per nessuno, chiedete a Stefano Perugini, rimasto battuto con la sua Aprilia ufficiale in quella battaglia a cinque. Troy, per&ograve;, torn&ograve; a casa non soddisfatto. Lui desiderava salire sul podio, di fronte alla sua gente. Lui voleva battere gli avversari dotati di un mezzo superiore. Lui anelava un posto fisso nel Mondiale. Lui era in cerca di ingaggi.  Nell&rsquo;inverno del 1998 un ingaggio gli fu proposto. Se nelle situazioni precedenti un piccolo trolley era sufficiente per raggiungere Phillip Island, dopo la telefonata via Regno Unito-Australia, i coniugi Bayliss capirono che, prima di salutare le spiagge di Taree, sarebbe stato meglio procurarsi giacche a vento, maglioni e ombrelli. Il British Superbike accoglieva Troy. Una volta sbarcato con la moglie e i due figli Mitch e Abbie, l&rsquo;abbronzato australiano cap&igrave; subito che, da quelle parti, sarebbe stato meglio dimenticare la tintarella e pensare ad altro. Pioggia e vento potevano anche (ogni tanto) andare bene. Il freddo no, davvero. Nei momenti da passare in casa, prima che partisse la stagione da affrontare con il Team GSE, ogni cintura dei membri della famiglia andava stretta, per benino. Tradotto in soldoni... Di soldi se ne vedevano pochi e il cielo era sempre pi&ugrave; grigio. Ma una volta in pista, qualcosa cambi&ograve;. Il ruggito del possente bicilindrico desmodromico riaccese lo sguardo di Troy, che si innamor&ograve; di primo udito e a prima vista della Ducati, moto passionale, estrema. Pura. Come lui. &ldquo;C&hellip;., queste piste sono da fuori di testa&rdquo;. Mica fu il solo a dirlo. Ma l&igrave; avrebbe dovuto correre, per almeno due stagioni. Nel frattempo, il gran salto di Cadwell salut&ograve; la prima vittoria d&rsquo;Oltremanica, davanti a un pubblico che asser&igrave;: &ldquo;Questo fottuto australiano va forte&rdquo;. E come se andava forte.  La seconda chance propostagli, datata 1999, si rivel&ograve; trionfale. Bayliss e la 916 RS erano un tutt&rsquo;uno. Uno, anzi. Come il numero finale conquistato, mai sfoggiato, per&ograve;, perlomeno da quelle parti, perch&eacute; a bordo di altri aerei doveva proseguire quel work trip, il viaggio di lavoro intrapreso due anni prima. E vai di valigia. Ernesto Marinelli e lo staff del Team Ducati Vance &amp; Hines non potevano crederci. L&rsquo;australiano vedeva per la prima volta la micidiale pista di Daytona, e girava gi&agrave; a pochi decimi dagli specialisti americani. Soprattutto sul banking, il muro sopraelevato, Troy mostrava di che pasta era fatto: manetta aperta nella Curva 4, da affrontare a pi&ugrave; di 250 chilometri orari, forse 270: &quot;Si schianter&agrave;, questo &egrave; sicuro&quot; le parole udite da pi&ugrave; di un presente. Sbagliate. Bayliss si fece notare come rivelazione dei test AMA, su una Ducati 996 cucitagli addosso. Il connazionale Mat Mladin, poi plurivincitore negli States, iniziava gi&agrave; a preoccuparsi: &quot;Qui il canguro sono io, non voglio che nessuno distrugga il giardinetto verde che sto costruendo&quot;. Troy ci and&ograve; vicino a farlo. In testa per tutta la 200 Miglia, vide sfumare il successo al debutto per una banale scivolata, avvenuta all&rsquo;ingresso dell&rsquo;Infield, dove era presente una impercettibile ma traditrice buca sull&rsquo;asfalto. Che disdetta. Le cose non andavano bene ma negli USA, specialmente in Florida e California, splendeva il Sole. Che bello, ricordava tanto casa. L&rsquo;Australia. Quasi quasi conviene pure fermarsi qui, e poi &egrave; importante riceverle puntualmente uno stipendio. Ah, ma quanto &egrave; bella questa Ducati, finalmente tutta rossa. S&igrave;, questo &egrave; il colore giusto. Altrimenti, sarebbe stata forte la tentazione di riverniciarla. Lui, lo sapeva fare, del resto.  &ldquo;Convocate quello l&igrave;, come si chiama? Ma s&igrave;, l&rsquo;australiano che ha vinto nel BSB e che andava forte a Daytona. Bayles. No, Bayliss. S&igrave;, proprio lui. Fogarty ne avr&agrave; per un bel po&rsquo;, dobbiamo portare a Sugo due piloti ufficiali&rdquo;. La leggenda narra che la convocazione nacque pi&ugrave; o meno cos&igrave;. Il Team Ducati Infostrada era in allarme. Il numero 1 della SBK era fermo. Carl si era fatto male. The King non si rialz&ograve; con le sue gambe dal terribile tamponamento avvenuto a Phillip Island. Gi&agrave; nella prima manche bagnata, a Foggy non and&ograve; gi&ugrave; lasciare la vittoria ad Anthony Gobert con la Bimota, ecco perch&eacute; l&rsquo;inglese bramava riscatto in Gara 2, ma l&rsquo;impatto con Robert Ulm sanc&igrave; la fine del suo regno. Ben Bostrom era preoccupato. Il sorridente californiano temeva tantissimo la prima curva di Sugo e sapeva che le wild card giapponesi erano paragonabili a incoscienti kamikaze. Due partenze, due &ldquo;crash&rdquo;, in fagiolate di gruppo.  Il capolavoro di Monza 2000   Tra i tanti a terra, Bostrom in Gara 1, ma a Bayliss and&ograve; peggio: due manche, zero giri completati. Un rivale gli pass&ograve; tra capo e collo, lasciandogli segni evidenti di gomma Dunlop sulla pelle. Come esordio da pilota factory nel mondiale fu &ldquo;Una m...&rdquo;, come non dargli ragione? La Ducati lo risped&igrave; negli USA. Urgeva correre ai ripari, ed ecco Luca Cadalora a Donington. Davanti al pubblico di Fogarty, la stella dei GP, due volte iridato nella 250 e otto volte vincitore in 500, fall&igrave;. Non lo affermiamo noi, lo raccontano le classifiche. Un ritiro e un diciassettesimo posto non sono accettabili da uno che su quella pista conquist&ograve; il primo successo in 500. A casa pure lui. &ldquo;Dai, riproviamo con Bayliss. Dopotutto, in Giappone &egrave; stato sfortunato. Schieriamolo a Monza, magari l&igrave; si trova bene. Ci sono curvoni e staccate, ci&ograve; potrebbe favorire il suo stile di guida&rdquo;. E che stile, ragazzi. Scintille ovunque, corpo storto avvitato in sella e movimenti degni di Yuri Chechi. Troy andava forte, se ne accorsero tutti. Nella gara pomeridiana, il capolavoro che segn&ograve; la sua storia e quella della SBK. Noriyuki Haga, Yanagawa, Chili ed Edwards, infilzati da un solo fendente dalla Rossa numero 21, al comando con una micidiale staccata alla fine del rettilineo d&rsquo;arrivo. &Egrave; giusto riportare i commenti del pubblico in tribuna: &ldquo;Ma come caspita ha fatto, chi &egrave; quello l&igrave;, da dove arriva?&rdquo;. Presto lo avrebbero saputo.  Continua  Carl Fogarty, il Campione allergico alla sconfitta 

Dall&rsquo;Australia alla conquista del mondo, grazie al talento e al coraggio: l&rsquo;incredibile epopea di Bayliss, che debutt&ograve; in ambito iridato a quasi 28 anni, incarnando l&rsquo;immagine del pilota pi&ugrave; amato dai ducatisti duri e puri

SBK: Troy Bayliss, l&#39;uomo con la valigia

La foto di copertina fa venire la pelle d&rsquo;oca. Tra i tanti miti della SBK - Chili, Reynolds, Hodgson, Whitham, Goddard e Merkel - svetta il pi&ugrave; amato tra tutti, il personaggio perfetto per descrivere un&rsquo;epoca motociclistica che non esiste pi&ugrave;: Fabrizio Pirovano.  Lo scatto sul rettilineo dei box di Donington raffigura la celebrazione del venticinquesimo anno di et&agrave; del mondiale dedicato alle derivate di serie ed il Piro, in piedi sulla Suzuki GSX-R 1000 Alstare Corona, con il suo sorriso spiega perfettamente quanto i piloti si divertissero in un ambiente che, chi l&rsquo;ha frequentato, non lo dimenticher&agrave; mai.  Pure Fabrizio &egrave; indimenticabile. La sua scomparsa, avvenuta quattro anni fa, &egrave; stata difficile da accettare in quel 12 giugno del 2016 e resta dura da rielaborare tutt&rsquo;oggi. Perch&eacute; non stiamo parlando di un &ldquo;semplice corridore&rdquo;, ma di un simbolo agonistico, umano e carismatico capace di far appassionare anche coloro che, di moto, non ne capivano pi&ugrave; di tanto. Un amore indelebile.    Dal cross all&rsquo;asfalto: Piro Re di Monza   Fabrizio aveva il fisico di un fantino ed il suo primo cavallo fu la moto da cross, che lui domava con grande maestria e controllo. Bella la polvere, il fango, i salti e tutto il resto, ma l&rsquo;Autodromo Nazionale di Monza si trovava proprio sotto casa, perch&eacute; non farci un giretto? Anche perch&eacute;, il titolo Cadetti vinto nella classe 50 ed il secondo posto nella Juniores 125, qualche cerotto di troppo a coprire ferite rimediate qua e l&agrave; glielo consigliarono.  L&rsquo;asfalto sembr&ograve; a Pirovano pi&ugrave; rassicurante e lui inizi&ograve; ad andarci forte subito, portando in gara moto carenate da 250 centimetri cubi a due tempi, ma il richiamo delle pi&ugrave; grosse e potenti quattro tempi fu per il brianzolo come un invito a nozze.  Ed ecco il matrimonio con la SBK, categoria nata - benissimo - nel 1988, che Fabrizio affront&ograve; con una Yamaha OW01, portata alla vittoria a Le Mans, per un primo ruggito iridato, ripetuto l&rsquo;anno successivo a Donington Park.    Nel 1990, tre successi per Pirovano, tra cui la doppietta di Shah Alam, raffigurata in foto: grande giornata per lui, ancora meglio a Monza, davanti ad amici e tifosi locali: con i due gradini pi&ugrave; alti del podio, il ragazzo di Biassono scrisse le prime pagine di un capitolo dedicato interamente alle sue imprese monzesi, che lo ricordano oggi come il vero ed unico Re di Monza: lo conferma la doppietta del 1992, i podi calcati un anno dopo e le vittorie ottenute nella Supersport.  Il titolo mondiale nella 600, cilindrata perfetta per il Piro   Guidava bene la 750 quattro cilindri e andava forte pure con la 916 Ducati bicilindrica il Piro, ma con la 600 dimostrava di averne (anche) di pi&ugrave;. Sar&agrave; stato per la poca tecnologia presente sulla moto, consideriamo anche che la Supersport di quegli anni proponeva una griglia di partenza assolutamente livellata, comunque la differenza in pista la determinava il pilota.  Fabrizio ebbe nella stagione 1998 l&rsquo;apice di carriera, dal punto di vista del piazzamento finale: primo posto e vittoria del titolo, grazie a cinque affermazioni di tappa colte con la Suzuki GSX-R 600 del team Alstare Corona.  L&rsquo;episodio pi&ugrave; significativo risale, per&ograve;, al 1997. Con fratture ad entrambe le caviglie, a Pirovano fu consigliato di non correre la gara di Monza. O meglio, gli fu consigliato di non correre nella &ldquo;sua&rdquo; Monza, appuntamento di casa, immancabile per lui: &ldquo;Ma scherziamo? Ho dolori e non mi muovo bene, ma io oggi corro. Eccome se corro&rdquo;.    La pioggia allagato tutto e la gara - effettivamente - si sarebbe disputata in condizioni oltre il limite consentito, perlomeno oggi: &ldquo;Meglio, meglio. Mettetemi in sella, sull&rsquo;acqua faticher&ograve; decisamente meno&rdquo;.  Detto, fatto: due bestioni del team belga di Francis Batta sollevarono il Piro come se fosse una foglia e lo incastonarono sulla Ducati 748, che lui riusc&igrave; a guidare vellutato, battendo tutti i rivali&nbsp; andati vicino all&rsquo;affogamento, tanta era l&rsquo;acqua caduta dal cielo e tantissima quella che allagava l&rsquo;asfalto. Il Piro era cos&igrave;, generoso e non si arrendeva mai.  Il saluto che non fu un addio, bens&igrave; un arrivederci   Di togliere la tuta in pelle, non ne voleva sapere. Anche quando la carriera di pilota professionista fin&igrave;, Pirovano si divertiva a correre - e vincere - nelle tante gare di contorno e nei trofei collegati al campionato SBK. La cosa bella era vederlo confrontarsi tranquillamente nel paddock con perfetti sconosciuti, come se lui li conoscesse da anni.  Ed ogni parola, si trasformava in consiglio utile: &ldquo;Ascolta, se entri cos&igrave; forte alla prima della Ascari, ti ritrovano nella tribuna che la Ferrari occupa nei giorni della Formula 1. Dammi retta, il lato sinistro della gomma &egrave; freddo in quel frangente, guida pi&ugrave; tranquillo e finirai il giro. Aveva ragione&rdquo;.  Da team manager, Fabrizio era portatore di una carica contagiosa e positiva: chiedete a personaggi come Max Biaggi o Troy Corser. Il Piro sapeva sempre trovare la motivazione giusta e saperla comunicare.    Quando usc&igrave; dall&rsquo;ambiente, lo fece solo perch&eacute; non stava bene. Un brutto male lo port&ograve; via da qua, ma non lo port&ograve; via da qua. Il concetto &egrave; difficile da spiegare, proveremo a farlo ricordando l&rsquo;ultimo giro compiuto da Pirovano a Monza, con una folla di motociclisti a segurilo fedelmente: amici, colleghi, ex rivali, giornalisti, tifosi e semplici appassionati. Tutti erano in pista in quel giugno 2016 e, la sensazione comune, fu che il Re di quella storica pista fosse ancora in mezzo a chi gli voleva bene. E lo sar&agrave; per sempre.  Bautista dice la sua sul campionato SBK e lancia il messaggio a Petrucci 

Fabrizio se ne &egrave; andato troppo presto, ma ha lasciato nel nostro cuore ricordi indelebili e senza tempo

Quattro anni fa la scomparsa di Pirovano

Quel 23 aprile 2000 fu proprio un giorno tutto italo - australiano.  La domenica SBK di Phillip Island, oltre a raccontare il successo storico di Gobert con la Bimota, ricorda la prima affermazione iridata nelle derivate ottenuta da Aprilia, al secondo anno in pista con la bicilindrica RSV1000.  Troy Corser, gi&agrave; autore di una fantastica Superpole, serv&igrave; al garage di Noale un successo che apr&igrave; una serie di cinque affermazioni stagionali.  &nbsp;Corser e Aprilia, un duo... vellutato   Il team Aprilia Racing - ufficiale - chiese a Troy se fosse il caso di passare dalle gomme Dunlop alle Michelin: &ldquo;Macch&eacute;, lasciatemi queste, vedremo di farle andare&rdquo; e cos&igrave; fu. La RSV1000 nera montava gli pneumatici anglo - giapponesi, a detta di alcuni piloti non molto precisi, ma Corser era Corser, cio&egrave;, il mago di assetti e pulizia di guida.  Quando spalancava il gas, il posteriore della moto numero 3 rimaneva incollato all&rsquo;asfalto, derapava poco e niente, ed il sound del bicilindrico, emanato dai terminali di scarico Akrapovic, tuonava sino al limitatore.  Con questa guida, l&rsquo;australiano centr&ograve; la Superpole del sabato, relegando a pi&ugrave; miti consigli la quattro cilindri Suzuki di Chili e le &ldquo;dirette rivali&rdquo; V Twin Honda e Ducati.   Il coccodrillo pregustava la portata pi&ugrave; prelibata. La vittoria.    Da due a quattro tempi: vincente nel Motomondiale, Aprilia si sblocc&ograve; pure in SBK   &nbsp;Il weekend di Phillip Island fu caratterizzato e condizionato da un violento uragano, che port&ograve; in pista pioggia, vento e fastidio.   Ritiratosi in Gara uno, Corser desiderava un bel riscatto dalla seconda manche. Molto bene, quale gomme montare? Era uscito il sole, ma alcuni tratti di asfalto erano ancora bagnati e le traiettorie rimaste viscide.  No problem, &ldquo;Ghe pensi m&igrave;&rdquo; fu l&rsquo;atteggiamento di Troy il quale, con due slick, sapeva che la possibilit&agrave; per vincere fosse una: tracciare una linea ben marcata nei primi giri, asciugare la traiettoria da lui preferita, copiarla per i restanti passaggi di gara.   Chi pensava che il campione 1996 con Ducati scherzasse, si &egrave; ricreduto. Corser fece proprio quanto pianificato. Partenza &ldquo;prudente&rdquo;, feeling con moto e coperture in crescita, disegni precisi dal primo all&rsquo;ultimo metro.  La GSX-R 750 di Frankie e la R7 di Haga dovettero accontentarsi della lotta per il secondo posto, con Nori meglio di Chili, ma non di tanto. Nemmeno di parecchio vinse Troy, neppure due secondi sulla Yamaha numero 41, per&ograve; era ci&ograve; che bastava.  In una domenica pazzesca, nella quale si registr&ograve; l&rsquo;incidente che sanc&igrave; la fine di carriera per Foggy, la Casa di Noale ebbe una certezza: oltre a primeggiare nell&rsquo;ambito due tempi, anche la SBK a quattro tempi poteva essere un grande terreno di caccia. 

A Phillip Island, Troy port&ograve; la bicilindrica veneta al successo nelle derivate di serie

Venti anni fa: Aprilia con Corser vincente in SBK per la prima volta

        Un tempo regine tra le corse delle derivate di serie, la 750 &egrave; una cilindrata che sul fronte delle sportive &egrave; ormai sparita dai listini ufficiale delle case. Protagonista fino a tutti gli anni '90 ed inizio 2000, le "setteemezzo" godevano di un enorme successo, soprattutto in ottica da corsa. Erano moto dotate di un rapporto peso/prestazioni che ne facevano un buon compromesso tra le pi&ugrave; strapotenti 1000 e le piccole e grintose 600: univano la peculiarit&agrave; delle due categorie risultando mezzi di indubbio gusto nella guida.&nbsp; Tante le protagoniste dagli anni '80 in avanti. Su tutte la Honda RC30, la Suzuki GSX-R 750, la Kawasaki ZXR-750, le Ducati 851-888-916 che inseriamo in questa categoria in virt&ugrave; del frazionamento a due clindri che la rendeva idonea a correre in SBK. In ultimo, la protagonista della nostra storia, la Yamaha: con la serie FZ prima ed FZR ed YZF poi ha dato grande battaglie sul campo delle sportive di serie e da corsa. Tutte la Yamaha erano accomunate dal motore Genesis: un 4 cilindri (anche nella cilindrata da 1000 cc) inclinato in avanti e caratterizzato dalla inusuale testata a 5 valvole per cilindro. Soluzione abbandonata poi definitivamente nel 2008. Allacciatevi il casco e... buona lettura! &nbsp; YAMAHA FZ 750 (1985-1987)  Presentata nel 1984, vede il debutto sul mercato l'anno seguente. Dalla sua un motore 750 4 cilindri in linea inclinati in avanti di 45&deg;. Soluzione quest'ultima che favoriva l'andamento rettilineo dei collettori di aspirazione oltre che abbassare il baricentro della moto, a vantaggio della maneggevolezza. Debutta la testata a 5 valvole, must di Iwata per 20 anni. Voci vollero che Yamaha speriment&ograve; anche una testata dotata di ben 7 (!) valvole per cilindro (4 aspirazione e 3 di scarico) ma eccessiva complessit&agrave; meccanica e costi portarono ad "accontentarsi" delle sole 3 di aspirazione e due di scarico. Un tipo di soluzione che ben conciliava le esigenze di una migliore respirazione del motore abbinate ed una camera di scoppio molto pulita e compatta nel disegno. Il motore al periodo erogava 106 CV oltre a risultare molto affidabile. In gara, la FZ fu protagonista tra le derivate di serie (non era ancora SBK) imponendosi nel campionato americano e nella 200 Miglia di Daytona con Eddie Lawson.&nbsp; Negli anni seguenti arriv&ograve; la versione carenata che al netto delle avvolgenti sovrastrutture non mostrava grandi stravolgimenti alla base tecnica ad esclusione dello scarico che arriva nella versione 4 in 1, al posto del 4 in 2. Pur restando in listino fino al 1991, la FZ segn&ograve; il passo nei confronti delle sorelle di casa Yamaha decisamente pi&ugrave; "racing".  &nbsp; YAMAHA FZR 750 R (1988) Copia in scala della sorellona 1000, la FZR 750 del 1988 segn&ograve; una prima svolta tra le medie "oversize" di Iwata. Dalla sua la FZR - come sottolineava la R in pi&ugrave; - portava su strada soluzioni che sarebbero divetate simbolo per la casa dei tre diapason per anni: motore con testate 5 valvole (ovviamente) e telaio doppio trave in alluminio che rimpiazzava il perimetrale in acciao della serie FZ. Il motore manteneva le caratteristiche di potenza della serie FZ (106 CV) ma la nuova carenatura con doppio faro e due prese d'aria frontali, oltre al nuovo telaio, ne facevano una moto tutta nuova oltre che pi&ugrave; sportiva. Questa serie 750 non venne importata in Italia, dove per&ograve; stava per arrivare una vera icona delle due ruote Yamaha ed in generale nel mondo delle SBK. &nbsp; &nbsp;YAMAHA FZR 750 R OW-01 (1989-1992) Sostanzialemte nata per correre tra le derivate di serie che al periodo vedevano il nascente mondiale SBK gi&agrave; grande protagonista, la FZR 750 R (codice OW-01) &egrave; un delle superbike pi&ugrave; apprezzate mai prodotte.&nbsp;Debutt&ograve; nel 1989 e venne realizzata in appena 500 esemplari l'anno (numero necessario per l'omologazione in SBK) al costo di oltre 35 milioni di vecchie lire. Dalla sua un nuovo telaio con doppio trave scatolato in alluminio, denominato Deltabox, e l'utilizzo di materiali come magnesio e titanio. Vantava inoltre pregiate sospensioni Ohlins. Il motore della&nbsp; famiglia &ldquo;Genesis&rdquo;ora vede l'adozione della valvola Ex-Up allo scarico, soluzione che migliorava la risposta ai medi regimi di un motore che aveva la capacit&agrave; di allungare fino ai 14.000 giri per una potenza di 120 CV.In gara la FZR 750 R and&ograve; a sfidare sullo stesso piano mostri sacri Honda RC30 e Ducati 851, sfiorando i titolo con Fabrizio Pirovano, secondo nel 1989 alle spalle della Ducati di Raymond Roche. A fine '92 la Yamaha decise di pensionare la OW-01, con la nuova YZF 750.  &nbsp; YAMAHA YZF-750 (1993-1998) Nel 1993 venne presentata la YZF. La nuova 750 Yamaha ariva sul mercato in due versioni: la "Standard" e la SP e rimase in produzione fino al 1998. Pur restando fedeli ai capisaldi della precedente serie FZR, la YZF vede rinnovarsi profondamente il telaio, sembre Deltabox ma con diverso disegno, ed il motore Genesis 20 valvole che vede la potenza crescere a 125 CV. La versione SP, realizzata per correre in SBK, aveva dalla sua una diversa posizione del perno del forcellone (regolabile), l'adozione di carburatori Keihin FCR da 39 mm (in luogo dei Mikuni da 38 della Standard), un telaietto posteriore rimovibile ed un codone rigorosamente monoposto.&nbsp; In gara si trov&ograve; la strada sbarrata dalla Ducati 916 di Karl Fogarty, pur vantando piloti del calibro di Colin Edwards e "Nitro" Nory Haga. Nella storia delle 750 Yamaha, la prima YZF &egrave; quella che forse ha riscosso minor successo in termini di appeal nei confronti di una concorrenza decisamente molto (ma molto) agguerrita.  &nbsp; Yamaha YZF-R7 (OW-02) Nel 1999 ecco arrivare una assoluta protagonista nel computo delle sportive di serie. Dalla mano dell'ingegner Kunihiko Miwa, dopo la YZF-R1 e contemporaneamente alla YZF-R6 arriva sul mercato la YZF-R7. La nuova SBK Yamaha alzava nettamente l'asticella in termini di prestazioni e appeal agli occhi degli appassionati. Dalla sua la nuova R7 (in codice OW-02) non aveva una vite simile alla predente YZF 750 pur mantenendo diversi aspetti in comune. Estetica che interpretava le linee delle sorelle R1 ed R6, motore Genesis 750 con la consueta distribuzione 20 valvole che erogava in configurazione "Strada" appena 107 CV, ma che con l'apposito Kit (dal costo di 6 milioni di vecchie lire) arrivava a quota 150 CV che diventavano 170 in versione SBK con Kit racing da quasi 40 milioni. Il telaio venne rivisto, ora Deltabox II, e sfruttava l'esperienza Yamaha nei GP. Nuovo anche il forcellone con capriata di rinforzo. Al periodo la nuova R7 fu grande protagonista in SBK dove per&ograve; non riusc&igrave; a centrare l'obiettivo Mondiale. Una squalifica per doping cost&ograve; a Noryuki Haga il titolo a favore di Colin Edwrad, nel frattempo passato alla Honda con la VTR-SP2.  La R7 rest&ograve; sulla breccia fino al 2002 quando la SBK pass&ograve; in mano alle moto da 1000 cc.        

Dalla prima FZ datata 1985 all'ultima esclusiva YZF-R7, protagonista nel mondiale SBK, la 750 di Iwata ha segnato la storia nelle corse e nel prodotto di serie&nbsp;&nbsp;

Yamaha 750 Genesis: generazione da corsa

Yoshimura esce dal campionato americano ma Suzuki resta. La storica struttura giapponese, con base in California, non supporter&agrave; pi&ugrave; i team USA impegnati con la GSX-R 1000, lasciando l&rsquo;impegno dopo lustri di successi. L&rsquo;albo d&rsquo;oro delle competizioni motociclistiche d&rsquo;Oltreoceano conta tantissime vittorie marcate dal costruttore di Hamamatsu; lo spettacolare Wes Cooley fu il primo a trionfare su una Suzuki, con le doppiette AMA nel biennio 1979-1980.  Bisogna fare un salto di qualche anno per rivedere un rappresentante della moto samurai in vetta alle classifiche: Jamie James fa suo il campionato 1989, con una 750 a carburatori. Arrivato dal Motomondiale e ambientatosi bene, l&rsquo;australiano Mat Mladin fa incetta di titoli, con una striscia che parte dal 1999 e arriva sino a 2005, interrotta da Nicky Hayden su Honda nel 2002. Per Mladin tante le Suzuki portate in gara, dallo &ldquo;SRAD&rdquo; settemmezzo visto in SBK alla &ldquo;K5&rdquo; 1000 alimentata ad iniezione, ereditata poi da Ben Spies, vincitore nel 2006. Con la versione aggiornata - la 2007 - il texano ripete l&rsquo;obiettivo, aggiungendo l&rsquo;affermazione 2008. Dopo averle prese di santa ragione e con il passaggio di Texas Terror alla Yamaha mondiale, Mladin torna Re della categoria nel 2009.  Da l&igrave; in poi, tante cose sono cambiate. L&rsquo;AMA ha lasciato il posto al MotoAmerica e, nel secondo anno di storia del campionato voluto da Wayne Rainey, Toni Elias riporta una Suzuki al vertice, battendo la R1 di Cameron Beuabier. Per Pop Yoshimura ed eredi &egrave; stata quella l&rsquo;ultima gioia. Nel 2020 sar&agrave; il team Hammer a seguire il progetto, con assistenza diretta dal Giappone. Probabilmente le moto avranno ottime performance, ma ai nostalgici mancher&agrave; tanto il logo visto per decenni sulle GSX-R da gara. 

Lo storico e vincente reparto corse giapponese abbandona le gare americane, lasciando il testimone al team Hammer Suzuki

Addio USA: Yoshimura esce dal MotoAmerica

La ventunenne tedesca Ricarda Neubauer prender&agrave; parte all&rsquo;edizione 2015 del Campionato Europeo Superstock 600, in sella alla ZX-6R del Team Go Eleven Kawasaki, completando lo schieramento STK600 della squadra italiana con il gi&agrave; confermato Ilya Michalchik. Neubauer ha gi&agrave; fatto vedere grandi cose in madrepatria, prima nella ADAC Junior Cup (dal 2011 al 2013) e poi, lo scorso anno, nella Suzuki GSX-R 750 Cup.   &ldquo;Sono grata al team Go Eleven per avermi dato la possibilit&agrave; di realizzare il sogno di una vita&rdquo;, ha commentato Neubauer. &ldquo;Fin da quando ero bambina ho sempre avuto una grandissima passione per le moto, ma non &egrave; facile per una ragazza iniziare questa professione. In mezzo ad un mondo di maschi, per me la gavetta &egrave; stata molto dura, ma ora mi sento pronta per questo importante passo della mia carriera. Voglio ringraziare la mia famiglia e tutti i sostenitori che credono in me e rendono tutto questo possibile.&rdquo; Il team manager Denis Sacchetti ha aggiunto: &ldquo;In passato mi &egrave; capitato di correre contro alcune ragazze e devo ammettere che sanno essere pi&ugrave; cattive dei maschietti. Una tra le pi&ugrave; forti al mondo, che conosciamo, &egrave; Alessia Polita, ha partecipato anche al Mondiale Supersport e guidava molto meglio di molti avversari uomini. Sono felice di poter lavorare insieme a Ricarda, sono certo che sapr&agrave; stupire, il nostro obiettivo &egrave; che diventi una rivelazione per il campionato!&rdquo;

La ventunenne tedesca Ricarda Neubauer prender&agrave; parte all&rsquo;edizione 2015 del Campionato Europeo Superstock 600, in sella alla ZX-6R del Team Go Eleven

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